Conosco un ragazzo sulla trentina, senegalese, che vive in Italia da quattro anni. Ha studiato, ha letto tanti libri, si informa, lavora, fa volontariato, ama la città in cui risiede, è gentile e ha sempre un sorriso per i suoi amici. Ha passato il suo tempo impegnandosi, anche per non pensare troppo a quell’attesa che lo stava consumando. La solita attesa per una dannata decisione dalla quale dipendeva il suo futuro. Una decisione non legata alla sua volontà, ma a quella di un tribunale che ci ha messo una vita a comunicargli il suo riconosciuto e sacrosanto diritto alla protezione umanitaria. Perché lui, nella sua terra, al confine con la difficile e inquieta regione della Casamance, si era messo a difendere diritti che le autorità locali non consideravano tali, al punto da fargli capire che andare via era l’unica possibilità di rimanere vivo.
Ci sono tanti altri esseri umani, uomini, donne, bambini che oggi attraversano deserti o rimangono bloccati in Libia o vengono intercettati in mezzo al mare e respinti, rispediti indietro, negli inferni che ormai tutti conosciamo. Lo permettiamo noi, lo permette questa Italia nella quale la politica, dal Pd alla Lega, ha una sola ossessione: fermare gli arrivi, trattare i migranti come una minaccia, rendere la loro vita difficile, vantarsi delle cifre che mostrano una riduzione degli ingressi nel nostro Paese. Una ossessione che è virale e si diffonde, in un meccanismo di reciproco contagio, tra i vari substrati della società italiana, che l’attuale classe politica nutre, fomenta e accontenta, aiutata dagli amplificatori mediatici.
Gli stessi che hanno presentato come indiscutibile l’equazione immigrazione=criminalità, stereotipo che costituisce un ingrediente indispensabile nella pastoia retorica sulla sicurezza. Sui migranti e sulla loro presenza nelle nostre città o comunque dentro i nostri confini, si concentrano tutti gli sforzi di istituzioni nazionali e locali, ministri, sindaci, osservatori e tavoli sulla sicurezza, mass media, parlamentari, prefetti, questori, cittadini. La cronaca di questo Paese racconta di controlli sui documenti, restrizioni, proteste e manifestazioni più o meno aggressive contro la presenza di centri che ospitano minori inoffensivi, sindaci sul piede di guerra che non vogliono accogliere migranti, reazioni violente e folli quando un migrante compie un reato.
In tutta questa orgia di imbecillità razzista, i clan e i gruppi malavitosi autoctoni se la godono. Mentre il popolo e i suoi rappresentanti se la prendono con lo straniero, personaggi autoctoni come i Casamonica spadroneggiano nei loro territori, al punto da pestare a sangue chi si permette di alzare la testa e reagire a un sopruso di quelli che meglio testimoniano la pochezza di questa gente: vale a dire la pretesa di passare avanti e scavalcare una persona in fila. Miseria umana, abiezione e, diciamola tutta, povertà cerebrale.
I Casamonica, quelli dei funerali sfarzosi, seduti da Vespa nel tentativo di mostrarsi normali, o meglio normalmente dozzinali. I Casamonica, quelli che, nella via che popolano con le loro abitazioni vistose, avrebbero spostato la fermata di un autobus urbano per far spazio al proprio cancello, erigono muri e acquisiscono suolo, ma soprattutto, a quanto pare, pretenderebbero il pagamento del pedaggio (in euro o sigarette) per permettere il passaggio dalla loro strada. Fanno tutto questo alla luce del sole e nessuno può dire “non lo sapevo”. Né il sindaco, né gli assessori, né il signor ministro dell’Interno uscente, il quale ha il suo ufficio proprio a Roma e non certo a Honolulu.
Proprio il ministro Minniti ha chiesto che non vi sia impunità, mentre il sindaco Raggi si è recato al bar devastato dai Casamonica dopo il pestaggio di una disabile e del barista. Perché adesso? Perché interessarsi soltanto ora di un fenomeno che “inquina” da tempo le strade di Roma? Perché in quel quartiere lo Stato non ci è andato prima, magari a ripristinare la legalità con la forza e con il controllo costante? Di zone franche, di aree off limits controllate da questo o quel gruppo criminale, più o meno potente, più o meno visibile, ne esistono a centinaia in tutta Italia.
Zone nelle quali la gran parte della cittadinanza tace, non organizza comitati, fiaccolate, proteste, non si lamenta per la sicurezza, perché il controllo del territorio offerto dai criminali, al netto dello spaccio e dei regolamenti di conti, al netto del racket e dei pedaggi da pagare, al netto delle spedizioni punitive contro chi compie uno sgarro solo perché si comporta da essere umano dotato di dignità, fa comodo o è accettato. Per gli italiani è molto meglio avere accanto i criminali feroci che gli immigrati che osano farsi vedere, condividere lo stesso ambiente, lo stesso palazzo, e che si alzano al mattino per andare a lavorare o per portare i figli a scuola. Meglio i criminali che pretendono il pedaggio e ti minacciano, rispetto a una casa per minori rifugiati che hanno la sola colpa di essere nati in mezzo alla guerra, di aver attraversato l’inferno e di essere approdati qui.
Eccola la sicurezza tanto chiesta dagli italiani e tanto inflazionata quanto proficua nel dibattito politico e nella guerra dei consensi. Una enorme bugia, uno strabismo indotto per guardare altrove e dimenticare noi, quello che siamo, quello che accettiamo quotidianamente, l’assenza di una dignità che quella ragazza disabile e quel barista romeno hanno invece difeso, sbattendola in faccia ai vigliacchi e ai delinquenti.
Si chiama coraggio di denunciare. Si chiama azione. Ed ha la portata nobile e preventiva di chi non tace per far sì che altri non debbano trovarsi a vivere le situazioni terribili vissute dentro quel bar. Un insegnamento alle istituzioni, al sindaco, al ministro Minniti, agli italiani ipocriti e collusi. Un invito a occuparsi, preventivamente e non successivamente, del reale problema di questo Paese, cioè mafiosi, mafiosetti, delinquenti e ominicchi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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