La mia provincia, quella di Grosseto, nell’immaginario collettivo si riduce a quattro-cinque posti abbastanza turistici da essere famosi. In effetti, nelle cronache mondane e letterarie ha sempre vissuto all’ombra di zone più famose. Terra di briganti, quando quelli celebri erano altrove, terra di imperatori di passaggio (Napoleone), di eroi di passaggio (Garibaldi), terra di partigiani come altre, terra di tragedie minerarie (Ribolla) subito dimenticate. Terra all’ombra di altre terre. Chi ci nasce non può fare a meno di portarsela dietro, quasi una maledizione. Come Luciano Bianciardi. Scrittore geniale, nato a Grosseto e morto a Milano, che descrisse ne La vita agra la migrazione dalla campagna dalla bellezza indescrivibile alla città senza smanie bucoliche.
Luciano Bianciardi scrisse condannando la modernità degli anni Sessanta di un’Italia ruspante: “Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo”. Con Bianciardi mi pare giusto introdurvi un ragazzo grossetano di nascita e maremmano a tutto tondo: Lucio Corsi. Capelli lunghi a coprire una testa geniale che partorisce musica e testi come non se ne sentivano da un pezzo. Perché Corsi ha dei testi che meritano davvero di essere ascoltati. Voli pindarici tra appoggi surreali in un universo fatto di stupore genuino, che fa leggere la realtà in modo del tutto nuovo, surreale appunto. E così Corsi si emoziona per tutto, dalle formiche, alle papere, ai palazzi, pescando con la dinamite da una platea sterminata di immagini pop provincializzate.
Quest’anno è uscito il suo ep dal titolo molto evocativo: “Vetulonia/Dakar” (clicca qui). Segnaliamo il brano Le api, una ballata in cui questi animali diventano un paragone per la vita di un adolescente e permettono di riflettere, tra l’altro, che “guardare di notte un temporale dall’alto significa capire inevitabilmente che piove dai lampioni in giù” e fanno pensare, come un gatto stalkerato dal padrone fotografo, che “basta con le foto del tramonto, ce n’è già uno al giorno, basta per davvero”. Ma c’è anche il loop di Soren: “Una sigaretta mi fa pensare alla fretta che metto nell’atto di fumare, mentre fumo ti guardo, guardandoti capisco quanto sei brutto come la tuta dell’Errea o Erre-a”.
Ma la canzone più geniale e che forse dà più la cifra della capacità di questo giovine è Migrazione generale dalle campagne alle città. Qui ritroviamo Bianciardi, ma in versione deacidificata. Un migrante campagnolo che guarda la città e, stupito, tenta di dare un senso, astruso e personale, ai palazzi, ai ricordi, ai paesaggi. E così parte una poesia letta con un sottofondo minimale: “Correva più o meno l’anno in cui Gesù con un’invasione di campo interruppe la partita più importante del campionato”.
Anche i consigli hanno un suono strano, come quando non si capisce un discorso: “Mai mangiare la neve gialla, mai abbandonare il bagaglio, rimanere sempre in vita e guardare il sole con gli occhiali”. Lucio Corsi è essenziale nel sound, chitarra e percussioni con un accenno di elettronica a sostenere un’eruzione creativa che non sa starsene irregimentata. Una musica nervosa come Godzilla (ultimo singolo uscito recentemente) o quasi punk come in Soren o estremamente cantautorale come in Dinosauri. Corsi assomiglia a un umido di Celentano, qualche pezzo di De Gregori servito su un quadro di Dalì. A gennaio uscirà Altalena Boy e sarà un disco di quelli che ricorderete. Noi ve l’abbiamo detto.
Penna Bianca -ilmegafono.org
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