Quando nasci sei una scommessa, ma non ci sono né giocatori né allibratori. Ci sei solo tu. E sei un’ampolla ripiena di pozioni, di sostanze innate, che si mischiano e poi ne attendono altre, che verranno dopo, da fuori, dalla società, dall’educazione. Un miscuglio continuo che poi si gioca nelle scelte che il tuo cervello e il tuo cuore ti detteranno, non senza combattimenti spietati ed estenuanti. E a volte sono scelte di libertà, di rifiuto della sopraffazione, della menzogna, di qualsiasi forma di oppressione o ingiustizia. Non so perché, ma è questa l’immagine che naviga nella mia mente se penso ai giornalisti liberi, agli scrittori e agli intellettuali, quelli che la loro idea non la baratterebbero mai con un assegno milionario. In questi giorni mi capita spesso di essere interrogato sul ruolo di noi giornalisti, negli ultimi tempi si sono intensificati gli incontri, gli inviti, a me che giornalista per il momento lo sono part-time, da freelance, senza un contratto, nelle ore libere che un altro lavoro mi concede.

Negli occhi e nelle domande dei miei interlocutori rintraccio tutto ciò che di bello, delicato, terribile si nasconde in questa passione, prima che professione. Trovo la curiosità e le attese, ma soprattutto una delle sostanze più complicate, di quelle che si muovono in equilibrio sulle tue vene, dentro ai tuoi muscoli, sotto la tua penna: la speranza. Siamo un popolo che urla contro i giornalisti, li etichetta tutti come una casta, li insulta, li indica come il problema principale, i colpevoli numero uno di tutto ciò che accade. Però poi spera, ogni volta che un’ingiustizia sembra insormontabile almeno quanto il silenzio che la ricopre, che un uomo o una donna armati di arguzia e di una penna (o di un computer) se ne interessino e facciano luce, indaghino, approfondiscano, denuncino.

Un paradosso, in apparenza, ma in realtà una logica conseguenza di un Paese che, se da un lato è pieno di esempi negativi, dall’altro può sicuramente vantare una lunga e nobile tradizione di giornalismo d’inchiesta, fatto di uomini e donne che erano anche militanti civili, consapevoli della loro solitudine e della loro non comune natura di avanguardia idealista in un mondo zeppo di serpi e vigliacchi, di impiegati modesti e, spesso, nemici e complici. Perché nonostante gli errori, le vergognose derive del giornalismo italiano, i rapporti più che familiari con il potere, la sottomissione alle linee editoriali più forti, la crisi economica che sta spazzando via le poche libertà veramente indipendenti, alla domanda “c’è ancora un giornalismo, radicato nel territorio, che combatte senza arretrare davanti a minacce, paura e isolamento?”, possiamo ancora rispondere di sì.

Sono tanti, molto spesso con pochi soldi in tasca, con la follia che li spinge ad autofinanziarsi pur di non perdere la traccia di un’inchiesta a cui si lavora da anni, nella speranza di poterla vendere per recuperare almeno le spese o semplicemente di riuscire a far sì che se ne parli. Sono ovunque, nelle province di questo Paese, nelle piazze, nei quartieri che quasi sempre condividono con gli stessi che denunciano, sputtanano, raccontano con onesta ferocia nei propri articoli e da cui devono guardarsi. Alcuni hanno nomi che la maggior parte degli italiani non conosce e che forse non conoscerà mai, scrivono su giornali locali o per piccoli blog, lavorano per tv locali, sono freelance che pubblicano con quelle poche testate che danno ancora spazio, sono idealisti ostinati con quell’unica, romantica e un po’ visionaria speranza che le loro parole possano servire a fermare il marcio, a cambiare le cose.

Alcuni sono iscritti all’albo, altri no, non possono farlo perché non percepiscono abbastanza o perché non vengono per niente pagati. Eppure tutto ciò non ferma la loro passione, la loro voglia di verità, di svelare, di scrivere affinché qualcuno legga e intervenga: un poliziotto, un magistrato, un’istituzione. Rischiano senza avere nemmeno un ritorno economico. Sono volontari dell’informazione, perché sono innamorati dell’informazione e del suo valore immenso, che altri colleghi o ex colleghi, più ricchi e potenti, rinchiusi nei loro palazzi al riparo da tutto, hanno degradato a infimo strumento di potere o di condizionamento del consenso. Di questi ultimi, i nomi sono tanti e ben noti ed è più salutare non ricordarli. In questa Italia di caste, ci si dimentica del fatto che le generalizzazioni e le etichette sono la ferita più grande che si possa fare a gente che ogni giorno si alza per raccontare, cercare notizie, approfondire, intuire, anticipare, rivelare.

Penne, vive di inchiostro e parole che si intrecciano, si scrutano, si pesano e poi si uniscono definitivamente, danzando sopra un foglio terminato da una firma. Quanta ansia quella firma, quando conclude il pezzo che contiene nomi e cognomi, che “rompe le palle”, che una reazione la susciterà di sicuro. E chissà quale sarà. Penne contro pistole. Il rumore della verità contro il rimbombo della violenza. Ne abbiamo viste cadere di penne incredibili, guidate da anime dritte, attaccate a mani e braccia ferme, a loro volta fissate a corpi che hanno vissuto e sono morti con la schiena sempre dritta. Nessuna caduta ha fermato però il vento di entusiasmo di chi crede che le parole siano l’arma che alla lunga la vince, anche se quell’arma è stata fermata fisicamente, “posata”, come si dice. Perché quelle parole vivono proprio dentro le azioni di chi continua, di chi con ingenua e tenera presunzione, prova a esserne il prosecutore, l’ingrediente necessario di un elisir di immortalità.

Ecco perché non si può far finta di niente, non si può sottovalutare una minaccia, mai, né quando a riceverla è il bravissimo e già conosciuto Lirio Abbate, entrato nel mirino della criminalità da molto tempo e adesso minacciato anche dalla mafia della Capitale, quella che ha raccolto l’eredità della banda della Magliana, né quando è un giornalista di un giornale di provincia o, ancor peggio, un collaboratore senza contratto né tessera. Perché la difesa della verità e della giustizia non ha gradazioni, né può ammettere differenze e discriminazioni.

E se quella verità, già osteggiata da norme, minacce di querele e di risarcimenti, veti al diritto di cronaca e tanto altro, la vogliamo difendere almeno dalla violenza mafiosa, allora dobbiamo pretendere che ci siano tutele diffuse per coloro i quali si trovano soli ad affrontare la paura e il pericolo. Iniziando però a capire e ribadire che il giornalismo italiano, per fortuna, non ha solo volti negativi e che a tale scopo diventa fondamentale innanzitutto andare a conoscere e leggere quelli che, con o senza tessera, gli conferiscono e restituiscono onore e lustro.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org