Nelle notti di luna, d’estate, nella campagna dove ho lasciato le mie radici, mi accade di passeggiare al buio, tra la sabbia e la macchia mediterranea che circonda i sentieri, e quel che mi anima, ogni volta, è la voglia di ascoltare il silenzio. Lieve ma intenso, pieno di tutte quelle cose che il giorno confonde e la notte ti restituisce sotto forma di certezze antiche. Un silenzio romantico, intimo, necessario, ricercato. Eloquente e positivo. La mia terra, isola agganciata ad un Paese che non ha saputo e voluto ascoltare altro che i suoi fragori violenti, le deflagrazioni sconvolgenti, i lamenti più miseri, ignorando le voci più belle, le melodie d’avanguardia, i segnali d’allarme dei pensatori illuminati, delle donne e degli uomini vissuti lungo la linea dritta del senso di giustizia e del dovere.

Pensando a quello che accade oggi, a tutto quello che è accaduto in questi ultimi trent’anni, le immagini dei notturni estivi si diradano, sostituite da un altro silenzio, differente, freddo, spesso e pesante, che si trasforma in una nebbia fitta e umida che risale lo Stivale, ne attraversa le cuciture e si inabissa negli squarci e nei buchi dei misteri, delle complicità dirette o indirette e nelle mancanze. Comprese le mancate parole (oltre che le azioni), quelle che pesano enormemente sulla storia di una nazione.

Così, mentre l’estate tarda ad arrivare e quella campagna notturna è lontana anche fisicamente, il silenzio peggiore, la cui eloquenza è nociva e appiccicosa, tormenta il presente e minaccia il futuro. Crudele e complice, dinnanzi a chi cerca di ridare dignità alla nostra storia, di rivelare ogni singolo tassello di un mosaico drammatico e impudico, osceno nella sua solidarietà deviata che lega tra loro i protagonisti di una vicenda che non si è mai conclusa e che prosegue ancora nei sotterranei di questa democrazia azzoppata e imbavagliata dai mercanti del silenzio, che fanno affari tra loro utilizzando come moneta il ricatto. Il processo sulla trattativa Stato-mafia è iniziato qualche giorno fa, ma in tanti non se ne sono accorti. O meglio, hanno fatto finta. Così come fingono di non accorgersi del clima di isolamento a cui il pm Nino Di Matteo è stato lasciato e dentro al quale è costretto a muoversi, tra mille ostacoli.

Ma gli oltraggi dei detrattori, quelli che da anni conducono una battaglia contro la procura di Palermo, sono “normali”, nel senso che sono attesi, ce li aspettavamo tutti, così come i tentativi più o meno leciti dei politici toccati dall’inchiesta e dei loro amici al potere che propongono leggi per poterli salvare ed evitare che parlino e raccontino tutto. Non dovrebbe essere normale, in un Paese normale; ma l’Italia non lo è e mai lo è stato. Quello che ci si aspettava meno e a cui non dovremmo mai abituarci, invece, è il silenzio, che conta più dei detrattori, delle accuse, del fango. È l’arma più potente e subdola, che agisce senza sporcarsi le mani, è un’omissione della coscienza, è sabbia mobile che circonda chi combatte, costringendolo a rimanere su un’isola, su una zattera, esposto al vento e all’appetito violento dei coccodrilli di Stato.

Il silenzio delle istituzioni, l’assenza di sostegno e di parole riguardo alle minacce che Di Matteo continua a ricevere, sulle informazioni di un anonimo che insiste nell’avvisarlo di stare attento, che qualcuno è pronto a fermarlo in qualsiasi modo: tutto ciò non può che assumere il significato di una inaccettabile complicità agli occhi di chi ha già vissuto (e ricorda bene) gli anni di Falcone e Borsellino, del pool, delle indagini sui terzi livelli, dei corvi, delle frasi misurate e profetiche di Tommaso Buscetta. Nessuna delle istituzioni fondamentali del nostro Paese ha sentito il dovere di dimostrare che quanto accaduto ventuno anni fa sia servito a non commettere più gli stessi errori. E dire che, neanche una settimana prima, gli stessi che hanno taciuto e tacciono sul caso Di Matteo, o che con la procura palermitana hanno polemizzato e perfino sollevato conflitti istituzionali, si erano premurati a rilasciare dichiarazioni di facciata o a sfilare alle commemorazioni della strage di Capaci.

Forse perché in quell’occasione il silenzio sarebbe stato troppo evidente anche agli occhi dei distratti, di chi ama solo esercitare, per un giorno, la memoria di ciò che è stato e poi dimentica quotidianamente di stare al fianco di chi quella memoria la utilizza come torcia da impugnare per illuminare la verità nascosta per anni, soffocata in un’insostenibile alternanza di veleni e delegittimazioni, di omissioni e guasti dolosi.

Fa rumore questo silenzio, interrotto solo dal clamore di fatti che qualcuno spaccia per coincidenze, perché buona parte del popolo italiano, assuefatto al mistero, crede di viverci nel Paese delle coincidenze, quelle che accadono all’improvviso andando “accidentalmente” a ostacolare il lavoro di chi invece prova a restituire all’Italia la fisionomia di una nazione democratica, che possa essere finalmente liberata dai misteri, dalle manovre infinite dei comitati d’affari, dalla loro dittatura sommersa. Casualità, come l’arresto di un testimone chiave del processo sulla trattativa (Massimo Ciancimino) per un  reato commesso quattro anni fa (rispetto a cui riesce davvero difficile pensare a particolari esigenze di custodia cautelare in carcere). Arresto avvenuto proprio all’indomani dell’apertura del processo.

Un testimone di giustizia, per quanto discusso e ambiguo, che viene portato in carcere a Palermo, costretto a chiudersi nel silenzio di una cella, dentro il quale dovrà vivere con la perenne paura di far qualsiasi cosa, perfino bere un caffè, perché l’Italia, tra le sue coincidenze, ha pure quella dei caffè “corretti” serviti ai principali testimoni (o potenziali testimoni) di inchieste sulle connivenze tra mafia e Stato e sulle loro convergenze in occasione dei fatti più tragici della storia italiana. Nessuna parola neanche su questo ultimo fatto.

Quello che se ne desume è che la politica, nel suo insieme, ha paura. Ha il terrore di essere smascherata, di veder frantumato il proprio equilibrio. Le reazioni sono molteplici: qualcuno sceglie l’arroganza sfacciata, qualche altro le trame sotterranee, altri ancora il silenzio. Prezioso e difficile da scalfire, nonostante le urla e le richieste di giustizia di una parte di questo Paese. Un silenzio che, molto spesso, ha i contorni di un ricatto, di cui siamo ostaggi tutti, non solo i ricattati. Perché questo silenzio, a differenza di quello romantico che ti avvolge nelle notti d’estate, è tetro e la sua eloquenza è nociva. Ha già inquinato quasi tutto, persino il pensiero. A resistere sono rimaste solo la rabbia e la speranza.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org