Quando da bambino ricevevo i primi insegnamenti sullo Stato, sul valore delle istituzioni, sulla giustizia e sull’uguaglianza di tutti al suo cospetto, respiravo profondamente e sentivo un senso di fierezza e di strana euforia per il fatto di vivere in una democrazia dalle fondamenta solide, sancite da una delle carte costituzionali più illuminate e moderne. Ci è voluto poco tempo, qualche anno, per accorgermi che in questo Paese istituzioni, Stato e giustizia, in realtà, annegano nella palude di una storia fatta di muri di gomma, depistaggi, commistioni, assoluzioni clamorose, misteri, trattative indecenti. E la Costituzione è una delle ultime zattere rimaste per cercare di appigliarsi all’oggi e sperare di non lasciare che il futuro affondi definitivamente. In questo Paese c’è una parola, la cui assenza certifica il marchio del fallimento di una comunità nazionale che si è abituata al peggio, spacciandolo a se stessa come il meglio possibile, attraverso un’opera penosa di autoconvincimento: verità.

Più che una parola, un concetto, un principio, un valore, qualcosa che sfugge agli italiani, un bene prezioso oggetto di mille rapine, bottino che scotta e che viene nascosto, sepolto nelle stanze buie e polverose di poteri invisibili, attaccati al dorso di un’Italia decadente, dalla carne consunta, nonostante il corpo sia ancora ricco di linfa vitale che prova a risalire lungo le vene delle tante forze positive che combattono, che non si arrendono. I vampiri del silenzio dissanguano l’anima di chi la verità non ha smesso mai di cercarla, a rischio di diventare anemico, di sentire troppo forte il dolore dei morsi taglienti ricevuti. La storia di questo Paese è un velo di mistero attraverso cui, di tanto in tanto, riescono a passare fasci di luce rivelatori, che accendono una speranza di verità, che consentono di avvicinarla, di sfiorarla, di vederla per bene.

Ma vedere non basta, perché poi bisogna toccare, dimostrare, accertare definitivamente, seguendo le leggi, il meccanismo di diritto che il nostro ordinamento prevede. Così, troppe volte, accade che questo meccanismo si inceppi, zoppichi, inciampi su un terreno di interpretazioni, procedure, tempistiche lunghe e strategie estenuanti. Ed alla fine, la verità, come un sole accecante che illumina il giorno, si attenua e scompare in fretta, come un tramonto dispettoso dietro un orizzonte nitido. È successo spesso, è successo ancora. Piazza della Loggia, Brescia, una strage per cui non ci sono colpevoli, come se quelle 8 persone spazzate via da un ordigno, la mattina del 28 maggio 1974, fossero morte da sole, si fossero suicidate.

Nessun condannato, nessun colpevole, né esecutori né mandanti, né complici. Una lunga vicenda processuale conclusasi con l’assoluzione di tutti, compresi i due rappresentanti dello Stato coinvolti in questa vicenda, l’ex parlamentare missino Pino Rauti e il generale Delfino. Secondo quella giustizia in cui, nonostante tutto, provo ad aver fiducia, a Brescia la bomba si posizionò da sola in quel cestino di rifiuti nel cuore della piazza, si auto-azionò ed esplose, senza che nessuno la piazzasse e la azionasse. Una ferita profonda che tocca non solo il cuore di chi in quella strage ha perso familiari e amici, ma anche le corde di una nazione che sembra destinata a rimanere senza verità. Piazza della Loggia è uno dei tanti momenti in cui la giustizia ha mostrato di essere una chimera, un privilegio per pochi.

Da Portella delle Ginestre a Ustica, da piazza Fontana alla stazione di Bologna (i cui mandanti sono rimasti ignoti): l’Italia è un enorme tappeto nero sotto cui qualcuno ha comodamente nascosto la sporcizia, che ha finito per incrostarsi negli angoli, nei disegni, tra le cuciture, trasformando il cammino verso il domani in un sentiero appiccicoso, su cui sono impressi gli sfregi di un passato che rimane sospeso, come un fantasma inquieto che, però, ha i contorni di carne e ossa, di facce, di storie, di vite, di vittime senza riscatto, senza giustizia, che non avranno mai le scuse concrete di uno Stato che ha nascosto tutto, insabbiato tutto e, oggi, negato tutto, persino il sangue e i brandelli di carne sull’asfalto. Per la giustizia italiana, a Piazza della Loggia non c’è mai stata alcuna strage, ma un suicidio collettivo.

In questo sinistro elenco di misteri, un capitolo a parte lo meriterebbero le stragi di Capaci e via D’Amelio, figlie di un patto tra mafia e pezzi dello Stato, un patto siglato con il sangue di 11 persone, tra cui i due magistrati che, per la prima volta, avevano messo le mani sul nodo che intrecciava decenni di rapporti e connivenze tra politica e clan. Due magistrati che, oggi sappiamo, probabilmente vennero uccisi con la complicità di chi avrebbe dovuto difenderli, tutelarli invece di decretarne la fine. Siamo alla vigilia delle celebrazioni per il 25 aprile, il giorno della Liberazione che ha sancito la nascita della nostra democrazia: sarebbe stato bello arrivarci con un po’ più di fiducia nella giustizia. E con un po’ di verità in più nell’epidermide di questa giovane e dannata Repubblica.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org