Quando provo ad identificare, in un istante, un elemento che da solo possa fungere da simbolo di una democrazia, mi vengono in mente sempre le stesse immagini: una sezione elettorale, gruppi di uomini e donne che inseriscono le loro schede nelle apposite urne, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, le manifestazioni di braccianti nel dopoguerra, quelle di operai e studenti negli anni ’70, il giorno di silenzio elettorale, la Costituzione. L’ordine di apparizione nella mia mente a volte cambia, tranne che per le prime due immagini. Se poi a questo gioco mentale cerco anche di aggiungere una colonna sonora, la prima canzone che si attiva in automatico è quella di Giorgio Gaber, intitolata Le elezioni. Insomma, nell’esercizio del diritto primario di cittadinanza, il voto è l’elemento imprescindibile per ogni democrazia, qualcosa che spetta ai cittadini, senza distinzioni di alcun tipo. Tutti coloro che sono capaci di intendere e di volere devono poter scegliere da chi essere governati, ad ogni livello.
Tra poco meno di due mesi, gli italiani torneranno alle urne per rinnovare le camere e il governo nazionale. La campagna elettorale è praticamente iniziata da un po’: Monti e Berlusconi sono protagonisti di una disarmante sovraesposizione mediatica, le forze politiche sono alle prese con la rifinitura delle alleanze e con la definizione delle liste, i sondaggisti cercano di misurare le oscillazioni del consenso, mentre gli osservatori politici provano a disegnare gli scenari del prossimo futuro. In tutta questa frenesia c’è un tema che sfugge ai più e che rappresenta una lacuna grave e profonda del diritto di partecipazione al voto di tutti gli aventi diritto. La questione è quella dei cittadini lavoratori e studenti fuori sede, i quali per poter esprimere il proprio voto sono costretti (a meno che non siano militari) a dover raggiungere i comuni di residenza. In Italia, infatti, se lavori o studi in un comune diverso da quello in cui risiedi hai una sola possibilità: metterti in viaggio, affrontando spesso costi elevati che nessuno ti rimborsa.
Non esiste, nel nostro Paese, la possibilità del voto elettronico o, molto più semplicemente, del voto presso un’apposita sezione dedicata a chi non ha il tempo o le possibilità economiche per tornare nella città di origine da cui si è momentaneamente allontanato. E allora, pur di esercitare il tuo diritto, sei disposto a pagare e metterti in viaggio. In Italia, però, subentra un’ulteriore problema, soprattutto se sei del profondo Sud o delle isole e di norma lavori nel profondo nord, mettiamo Torino, Milano, Trento e così via: le distanze sono notevoli e in più i trasporti su strada o rotaia non sono adeguati (i treni sono pochi, spesso mancano i collegamenti diretti, costringendo a viaggi di più di un giorno; stesso discorso per gli autobus verso alcune destinazioni).
Il regime dei rimborsi è previsto per i treni, mentre per gli aerei, che sono gli unici mezzi possibili per giungere a destinazione in un tempo compatibile con le giornate non lavorative a disposizione, non sono previsti rimborsi oppure vengono resi noti soltanto a ridosso dell’appuntamento elettorale, quando i prezzi sono talmente alle stelle da rendere ridicolo e irrisorio lo sconto. Così, accade che molti cittadini rinuncino a spostarsi e dunque ad un proprio diritto fondamentale. Nella mia esperienza personale, lavorando a Milano da 2 anni, non solo ho incontrato molti di questi fuorisede obbligati alla rinuncia o a esborsi proibitivi, ma io stesso, in occasione delle scorse regionali siciliane, mi sono trovato costretto a non votare, per la prima volta in vita mia, per via di tariffe aeree (unico mezzo che mi avrebbe consentito di non perdere un giorno di lavoro) che sarebbe più corretto definire offensive per una tratta nazionale in un periodo non festivo.
La questione dei fuori sede, ne sono convinto, è una delle cause del record di astensionismo registrato alle scorse elezioni regionali siciliane. La dimostrazione è semplice: basta osservare i dati allarmanti sulla nuova emigrazione interna (decine di migliaia di persone, principalmente giovani, negli ultimi 10 anni sono andati via dal Sud per cercare lavoro al Nord) e il dato di affluenza record in occasione del referendum sull’acqua pubblica del 2011 (quando era possibile per i fuori sede votare nel comune non di residenza). In poche parole, se si consente ai fuorisede di esprimere il proprio voto anche al di fuori del comune di residenza, l’astensionismo si riduce notevolmente e cresce la partecipazione. Due elementi che indicano come in Italia ci sia un evidente vuoto democratico, dentro il quale annaspano i diritti di migliaia di persone.
E dire che ci sono anche petizioni e proposte di legge (leggi qui), come quella presentata da Pancho Pardi (Idv) e Stefano Ceccanti (Pd), peccato che la proposta non è stata nemmeno discussa per via della fine anticipata della legislatura. L’ennesima che si chiude senza che si ponga rimedio a questo problema. Nemmeno il cambio di residenza, che chi soggiorna da più tempo o prevede di soggiornare a lungo potrebbe avere interesse a chiedere, è sempre possibile perché bisogna avere un contratto regolare che non è facile ottenere (sugli affitti per lavoratori o studenti si combatte in ogni città una guerra quotidiana che politicamente viene snobbata o sottovalutata).
Insomma, passano gli anni e le legislature e noi siamo ancora qui, alle prese con il dilemma: spendere 180-200 euro per dare il proprio voto o rinunciare perché si è studenti o lavoratori che hanno spese mensili e una vita quotidiana da affrontare e magari non hanno soldi da sacrificare ad un Paese che toglie diritti invece di difenderli? Personalmente, potendo farlo, proverò l’onta e l’umiliazione di dover pagare per esercitare il mio diritto sacrosanto a scegliere la classe dirigente che sarà chiamata a governare; ma chi non può permetterselo come farà? Come sempre. Si asterrà. Subirà le scelte di altri. Consapevole che questa non è una democrazia. E non solo per via di una legge elettorale ignobile e illiberale, ma anche per un sistema di voto che fa sì che il suffragio sia universale solo a parole. In realtà, nel Paese delle banche e dei banchieri candidati, anche per votare bisogna aver denari.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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