L’Europa spegne le luci. Per qualche ora. Poi le riaccende e poche ore dopo si ritrova catapultata dentro l’orrido racconto dell’ennesimo attacco terroristico. E così si ricomincia a piangere, a raccontare le storie delle vittime, a mettere bandiere, a guardare di traverso i rifugiati, anche se le indagini, nuovamente, dimostrano che non c’entrano un bel niente con quel terrore, se non per il fatto che somiglia a quello da cui si sono salvati fuggendo. L’Europa di questi giorni ha dimenticato, in un attimo, quel click sull’interruttore che ha alimentato per una sera i propri palazzi istituzionali. Ha messo già in un angolo di oblio Aleppo e i suoi morti, la Siria e il suo dolore straziante.

Perché qui funziona in questa maniera: tutto ciò che ci colpisce da vicino è orrore, mentre quello che accade lontano da noi, anche per nostra responsabilità, ci sfiora per pochi secondi, qualche ora al massimo, poi nulla. Si torna alla nostra indifferenza. Sarebbe accaduto anche senza i morti di Berlino. Aleppo, nella nostra mente occidentale, è solo un tema sul quale dibattere talvolta per individuare i responsabili, uno o più, quasi sicuramente “altri” ai quali contrapporre i nostri distinguo, il nostro essere differenti. Oppure è solo una terra condannata alla sua miseria, al suo destino infelice: qualche lacrima, qualche opera di solidarietà, qualche singhiozzo trascinato davanti al corpo di un bambino morto o al suo viso impaurito e macchiato di polvere e sangue.

Poi, nulla più. Si ritorna a parlare di altro, di questioni politiche interne, di terrorismo, di sicurezza, di rifugiati. Già, rifugiati. Quelli che vengono anche da Aleppo, quelli che abbiamo lasciato stremati e morenti davanti alle frontiere turche. Quelli che abbiamo respinto, rimandato indietro verso la morte, come bersagli a braccia aperte sotto il fuoco dei cecchini o sotto la pioggia di bombe dalle bandiere più varie. Li indichiamo come colpevoli di ogni cosa, pur di non riconoscergli lo status di vittime, che ci costringerebbe a scoprirci carnefici, volontari, diretti, di un genocidio. Olocausto, lo ha definito giustamente la giornalista arabo-israeliana Lucy Aharish. A due passi dal mondo, dentro un’area del mondo nella quale si intrecciano gli interessi di tutti.

E siamo tutti responsabili. Lo è anche l’Europa, così come lo fu nei confronti degli ebrei nella prima metà del secolo scorso. Ma con un’aggravante: che oggi sappiamo tutto, vediamo tutto in tempo reale. Vediamo i corpi, le macerie, le esecuzioni, le fosse comuni. E stiamo zitti. Rinchiusi nei nostri diroccati loculi sociali, dentro il cimitero di una civiltà morente. “Non ci riguarda” è l’unica cosa che pensiamo davvero. Salvo poi andare dietro a quelle forze oscure che puntano il dito sui sopravvissuti, che blaterano di invasione, rendendo di carne l’egoismo e la stoltezza di questa parte di pianeta che ha detto addio da tempo ai suoi principi illuministi, positivi, solidali. Siamo tutti colpevoli, dunque, perché abbiamo mandato al potere gente incapace di umanità, incapace di prospettare soluzioni politiche filantropiche e civili, ma capacissima di contribuire all’orrore e di edificare indifferenza e morte.

Abbiamo lasciato che questa classe di governanti europea si facesse influenzare dai succhi acidi dello stomaco di un popolo egoista e codardo e dei loro uomini qualunque, dei loro portavoce. Siamo tutti noi i mandanti degli omicidi, abbiamo pagato con i nostri soldi gli esecutori turchi per non far passare i profughi, rispediti indietro a morire. Siamo gli eredi più infami della nostra memoria, di una storia che abbiamo messo da parte in fretta, con l’arrogante convinzione che non potesse più ripetersi, che studiarla e insegnarla fosse tempo perso rispetto alle nozioni della tecnica e della tecnologia, dei numeri e delle cifre. Abbiamo messo da parte il pensiero, l’umanesimo, le dottrine dell’uomo che ne indagano l’essenza, e abbiamo smarrito gli intellettuali, i pensatori illuminati, i personaggi che incarnavano la pace e la giustizia, i Mandela e i Ghandi.

Dell’eredità del Novecento ci è rimasto solo l’orrore. A cui ormai ci siamo assuefatti. Lo guardiamo in faccia e non diciamo una parola. Non scendiamo in piazza, non proviamo a rompere un sistema profondamente ingiusto, non promuoviamo pensiero che diventi azione politica alta, non esercitiamo pressione su chi non si muove e rimane complice inerte. Guardiamo le luci funeste delle bombe che cadono a molte miglia da noi e dalle finestre dei nostri appartamenti riscaldati e poi scrolliamo le spalle, pensando che ci penserà qualcun altro. E sperando al massimo che quelle bombe siano davvero intelligenti e non sparpaglino ovunque i pezzi di esseri umani che non hanno più nemmeno modo di implorare il nostro aiuto.

La Siria è solo l’ultima, la più eclatante macchia di sangue sulla coscienza di questo mondo per cui la natività di un bambino di duemila anni fa e i riti spesso vuoti che la celebrano contano più di tutti quei bambini che oggi non nasceranno o moriranno poco dopo i loro primi vagiti, coperti dal fragore di bombe e proiettili. Non ci sono campane e jingle festosi in Siria. Non ci sono nemmeno in Yemen, coperti dal rumore lugubre delle nostre armi. C’è solo il silenzio spettrale della nostra colpa. C’è il buio di una notte per la quale non servono più luci. Nemmeno quelle accese, tardivamente, da chi pensa che basti un gesto ipocrita a lavare una coscienza putrida. C’è il buio di un tempo che, prima o poi, ci presenterà il conto.

Lo ha ricordato la giornalista arabo-israeliana, nel suo messaggio-denuncia: Albert Einstein diceva che “il mondo non sarà distrutto da chi fa del male, ma da quelli che guardano senza fare niente”. Stiamo dimostrando che aveva ragione.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org