Aumentare l’occupazione, in particolare di giovani e donne, e creare un sistema di tutele “universalistico”: sono alcuni degli obiettivi della riforma del lavoro approvata il 28 giugno scorso dal Parlamento. Proprio come recita l’articolo 1 del disegno di legge, si tratta di “misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili; ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro; valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego”.
Equità, stabilità e valorizzazione dei giovani sono concetti ricchi di significato e parole che infondono speranza, in particolare nelle nuove generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro in questo momento. Eppure, con l’inasprirsi della crisi economica, ci stiamo di fatto allontanando sempre di più da questi obiettivi. Una legge, infatti, non può cambiare una mentalità, sempre più diffusa nel nostro Paese, secondo cui il lavoro per i giovani, e in particolare per i laureati, è “una manna dal cielo”, un dono che ti fanno gli adulti.
Frasi come “tieniti stretto il posto” perché – sottinteso – rischi di rimanere disoccupato a vita, “accetta tutto perché se non altro fa curriculum” e “cerca di resistere, ci siamo passati tutti”, sembrano essere tra le più ricorrenti quando si parla di lavoro. Allo stesso tempo non si sente mai parlare in modo davvero concreto di apprendistato, equità, valorizzazione per i giovani lavoratori. Soprattutto non si sente ancora parlare di un modello che come in molti altri Paesi europei (Germania e Regno Unito in testa) funzioni da autentico volano per il raccordo tra il mondo della formazione (universitaria, scolastica, professionale, ecc.) e quello del lavoro.
La maggioranza dei laureati (ma non solo) che entrano in questo mondo, in Italia sono costretti a farlo passando dalla porta di servizio, ovvero attraverso “stage non retribuiti”, rapporti di precariato e orari a volte massacranti. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, pochi giorni fa, alla presentazione a Roma dello studio di Confindustria sugli scenari economici, ha invitato le imprese a fare in modo che l’apprendistato diventi finalmente “la normale via d’ingresso per i giovani nel mondo del lavoro. Voi forse penserete che l’apprendistato c’è già e non ha poi così ben funzionato – ha detto la Fornero -. Ma questo è successo perché non si è valorizzata abbastanza la parte dell’apprendimento e spesso è accaduto che gli apprendisti si sono susseguiti senza alcuna stabilizzazione”.
L’apprendistato di cui parla la Fornero è stato finora “lo stage non retribuito” e con l’acuirsi della crisi, che colpisce soprattutto le piccole e medie imprese, è una forma di “ingresso nel mondo del lavoro” che non è affatto scomparsa. Migliaia di giovani, in Italia, entrano nel mercato del lavoro dalla porta di servizio, senza alcuna tutela. E non si tratta di semplice precariato, ma di una moderna schiavitù, legalizzata non solo dall’assenza di controlli efficienti, che rende vana qualsiasi legge, ma anche e soprattutto da un sistema ricattatorio e cinico.
L’impresa, infatti, dà al giovane laureato la possibilità di imparare, gratuitamente o con un piccolo rimborso spese, un mestiere, che sia ingegnere, commercialista, architetto, giornalista, contabile o segretario e, in nome di questa “grande opportunità” offerta al giovane inesperto, gli impone ogni sorta di condizione, pretendendo che si formi subito, per aumentare la produttività a costi minimi. Quante imprese oggi sfruttano giovanissime risorse per ottenere vantaggi immediati a costi ridottissimi? Tutto ciò avviene come se fosse normale, come se il lavoro, appunto, fosse un dono, un premio da conquistare, e non un diritto inalienabile dell’essere umano.
Chi non accetta le regole imposte dal datore di lavoro, in Italia, viene automaticamente escluso perché è considerato un elemento di disturbo. Chi rivendica i propri diritti, spesso anche quelli più scontati per un lavoratore delle vecchie generazioni, viene umiliato e cacciato e, in molti casi, se continua a lavorare, lo fa sotto la costante minaccia di perdere il posto. E allora, molti giovani, oggi, non tentano nemmeno di liberarsi dalle catene e accettano di lavorare sottopagati, maltrattati e sfruttati. Lo fanno perché credono di non avere altra possibilità, se non quella di “schiavizzarsi” per ottenere quel premio tanto ambito che in realtà sarebbe solo un loro diritto, per di più riconosciuto e tutelato dalla Costituzione.
G. L. – ilmegafono.org
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