Quando, poco più di un anno fa, i guerriglieri curdi liberarono dall’occupazione dell’IS la città di Kobane, una delle più importanti della regione del Rojava, nel Kurdistan siriano, gran parte del mondo si accorse all’improvviso di questa lunga, drammatica ed epica lotta di resistenza. Partigiani della libertà, uomini e soprattutto donne, animati dalla volontà non solo di liberare una città e una regione dalla violenza delle milizie nere, ma anche e soprattutto di affermare l’importanza della causa di un popolo che combatte da anni per il proprio riconoscimento, per affrancarsi dall’oppressione micidiale a cui è sottoposto da più parti. Una storia di lotta contro chi ne ha calpestato e ne calpesta tuttora l’esistenza, la fisionomia di popolo, l’organizzazione: Turchia, Iraq, Iran, Siria.

Una causa profonda che ne mette insieme tante altre, dall’emancipazione della donna a un nuovo modello di società, e che si tramanda di villaggio in villaggio, con tutto il carico di dolori, lutti, storie di coraggio e sofferenza, che attraversano le città, le famiglie, i partiti di liberazione, i fronti guerriglieri. Come ogni lotta, anche quella curda ha i suoi martiri, i suoi eroi, i volti e gli sguardi dei combattenti e dei loro comandanti. E delle loro comandanti. Perché le donne, a Kobane, come nel resto dei fronti di lotta curda, sono protagoniste. Lo sono Şimal ed Evrim, lo era soprattutto Filiz, che il mondo ha conosciuto, con il nome di battaglia di Avesta, pochi giorni prima della sua morte, avvenuta a settembre 2014 vicino a Makhmur, nel Kurdistan iracheno, durante un’azione mirata a liberare un villaggio occupato dai miliziani dell’IS.

Aveva 24 anni, un immenso e doloroso sogno di libertà e due grandi occhi verdi pieni di fierezza e umanità che in quelle ore, in foto, stavano facendo il giro del mondo. Non ci è arrivata a vedere Kobane libera, Avesta. Ma ha lasciato la sua anima curda e il suo esempio nelle mani del reparto del Pkk che comandava e di tutti i guerriglieri curdi che combattono ancora per la stessa causa. Il suo sguardo non è rimasto nella polvere, ma sopravvive, grazie al ricordo delle sue compagne e dei suoi compagni di lotta, e adesso grazie anche al racconto dello scrittore, autore e musicista Marco Rovelli, che ad Avesta ha dedicato un romanzo dal titolo “La guerriera dagli occhi verdi” (Giunti editore), appena pubblicato. Marco ci ha concesso un’intervista nel quale, partendo dal suo viaggio tra i luoghi, gli amici e i compagni di Avesta, ci parla anche della causa curda e delle sue peculiarità.

Come nasce questo libro?

La storia dei guerriglieri curdi in lotta contro l’IS era ormai patrimonio di un immaginario condiviso, ma c’era qualcosa di più profondo da raccontare, vale a dire un progetto di società che è molto diverso e anche alternativo rispetto al nostro: quello che dal punto di vista politico è il confederalismo democratico. Un aspetto universale in una lotta che ci riguarda tutti da vicino. L’intervista con la foto di questa ragazza mi ha colpito molto; poi qualche giorno dopo è giunta la notizia che lei era morta. L’ho vissuto come un segno e l’ho seguito, ho capito che era quella la storia giusta da raccontare.

Cosa rappresenta lei per te, dopo aver vissuto da vicino i suoi luoghi?

Non avendola mai conosciuta, Avesta per me rappresenta l’esperienza che ho fatto in quei luoghi e con le persone che ho conosciuto, muovendomi tra Makhmur, nel Kurdistan iracheno, dove ho incontrato i suoi guerriglieri, e Van, nell’estremo est della Turchia, dove lei era cresciuta e dove ho incontrato la sua famiglia. Ho sperimentato un modo di vivere molto lontano dal nostro. Loro dicono che combattere non significa solo combattere il nemico, ma anche e soprattutto il proprio individualismo, il proprio egoismo. C’è questa forma di trascendenza continua nei confronti di se stessi, questo spirito di risolversi nella comunità, di lavorare per la comunità, trasformare la propria mentalità, diventare persone nuove. Lì ti rendi conto che quella resistenza è profondamente radicata nell’esistenza, che non è solo la tua ma quella di tutti, anche di chi ti precede. C’è un aspetto tragico, nel senso proprio della parola: la scelta di lottare consiste nell’assumersi la responsabilità del fato, di quel che ti tocca. I curdi offrono un esempio straordinario, al limite delle possibilità umane. Questa è la dimensione universale di Avesta.

Parliamo della situazione attuale dei curdi: quanto è lontana la vittoria per l’affermazione e il riconoscimento della causa curda?

Sicuramente al momento non siamo vicini. Ma se si ragiona partendo dalla forza smisurata dell’anima dei curdi, che hanno resistito a secoli di oppressione e che da 40 anni stanno in montagna a lottare, credo che loro non possano non vincere. Dopodiché, se passiamo alle prospettive realistiche, allora dobbiamo considerare il fatto che Erdogan è un interlocutore in questo momento dell’Europa e che, dunque, ancora una volta, dei curdi non frega niente a nessuno, perché possono essere tranquillamente usati come merce di scambio nella politica di freno dell’immigrazione.

Quanto pesa l’indifferenza del mondo nei confronti della causa curda?

A dire il vero i curdi considerano questa indifferenza quasi come un elemento del fato. Quando domandai a un esponente dell’Hdp di Van, cosa chiedessero agli stati europei, mi rispose: “Nulla, noi non possiamo chiedere qualcosa a chi non ci ha mai ascoltato e non ci ascolterà mai. Noi ci rivolgiamo ai popoli”. Ecco perché la politica estera dei curdi si basa molto sull’elemento culturale, sul parlare, far conoscere, per loro l’unica arma è passare dalla diplomazia dei popoli. Certo, se ci fossero degli stati meno indifferenti, le cose sarebbero indubbiamente più semplici.

La specificità della lotta curda, con la causa della libertà femminile, può essere d’aiuto e d’esempio per altri popoli e altre realtà?

Sì. Sicuramente in una zona del mondo come il Medio Oriente, un tipo di pratica di quel genere è davvero dirompente. La lotta per l’emancipazione della donna è consostanziale alla stessa nascita di questo tipo di lotta dentro a una società patriarcale, maschilista, feudale. I curdi, attraverso la loro battaglia e il loro esempio, propongono una società diversa. E la propongono anche a noi, che ancora siamo fermi alle quote rosa. Loro hanno il confederalismo democratico, con il co-sindaco e la co-sindaca: ruoli paritari distribuiti in politica all’uomo e alla donna, espressione di un movimento politico di base che delega queste persone, non secondo una delega rappresentativa, ma secondo una modalità per cui chi va a rappresentare i comitati di base nei livelli più alti di gestione deve sempre e continuamente rispondere a quei comitati che gli hanno dato il mandato. Un circolo virtuoso che è in qualche modo un tentativo di democrazia diretta. Questo tipo di democrazia, che ritengo essere la proposta politica attualmente più avanzata, vive proprio dell’emancipazione sostanziale e non solo formale della donna.

Pensi che sarebbe possibile un’applicazione di questa forma di democrazia all’interno di una nazione?

Con il loro confederalismo democratico, ovvero una democrazia municipalista, assembleare, libertaria, viene meno l’esigenza di rivendicare una nazione, uno Stato. C’è bisogno invece di concedere autonomia e autodeterminazione ai consigli di base che poi esprimono livelli superiori. Ecco, questo tipo di cosa è secondo me applicabilissima. I modelli delle rivoluzioni di solito sono quelli novecenteschi, nei quali è stato il partito a prendere il potere e a gestirlo a livello verticistico, gerarchico. Quello curdo è invece un modello al rovescio sulla gestione del potere, un modello libertario, quasi anarchico come concezione. Il loro è un esperimento moderno e avanzatissimo, che nel Rojava sta funzionando.

Qual è il nemico o l’ostacolo principale dei curdi e dei partiti di liberazione?

I nemici sono i soliti, tutti insieme: Erdogan, Barzani, l’IS, ma anche l’Unione Europea.

Anche gli USA?

Gli Usa hanno dato una flebile mano. Ad esempio, Kobane si è liberata anche (sottolineo anche) grazie all’intervento degli aerei americani, ma solo perché in quel momento per gli Usa era prioritario che l’IS, che gli era servita per frantumare certi poteri, non arrivasse ad essere egemonica.

Come hanno vissuto i curdi la loro vittoria a Kobane dinnanzi agli occhi di un mondo che di fronte all’IS sembrava impotente?

Kobane ha avuto un valore simbolico straordinario per loro, perché è stato il vero momento di crisi che Erdogan ha vissuto nei confronti dei curdi turchi. Non dimentichiamo che, a un certo punto, la Turchia aveva interrotto il corridoio, chiuso le frontiere di fronte a una Kobane sotto assedio. Per tale ragione, nel 2014, ci fu una vera e propria sollevazione popolare in moltissime città del Kurdistan turco contro Erdogan. Del resto lo stesso Erdogan, molti anni prima, era andato al potere promettendo di mediare e risolvere la questione curda, poi la storia ha detto il contrario. Alcuni curdi ci avevano creduto e avevano perfino votato il partito di Erdogan. Dopo Kobane non ci hanno più creduto. È stato veramente un punto di svolta nella consapevolezza di una nuova fase della lotta del popolo curdo, anche per quelli stessi che vivevano in Turchia.

L’IS, secondo te, si può fermare e, soprattutto, si vuole fermare?

L’IS in questo momento sembra alle corde. I curdi stanno attaccando Raqqa, gli iracheni si stanno prendendo Fallujah, il Rojava nell’ultimo anno e mezzo è stato praticamente quasi per intero riconquistato dai curdi. Ma tutto ciò non è certo avvenuto per volontà degli occidentali, ma per una serie di processi contestuali, come l’irruzione di Putin, la riorganizzazione dell’esercito iracheno, e così via. Insomma, credo che agli occidentali per il momento interessi solo mantenere la situazione in stallo, perché la loro idea è comunque che Assad debba essere cacciato. È questa la loro priorità. Che poi, tra l’altro, Assad deve essere cacciato, ma il punto è come.

Concludiamo tornando al libro: quali sono le tracce più profonde che questa esperienza ti ha lasciato dentro?

È proprio l’esperienza umana che ho fatto insieme al tentativo di dare forma e figura a un’anima, a uno sguardo che era quello di Avesta, cercare di descrivere, di far sentire i moti di quell’anima. Questo è quello che mi ha affascinato di più, perché quell’anima mi ha toccato quando sono stato lì. Quando ho finito di scrivere il libro e ho chiuso l’ultima pagina, ho sentito una forte commozione perché è stato come dire addio a una persona a cui ti sei sentito vicino per molto tempo. C’è stata una sorta di profonda immedesimazione.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org