Accade che in un pomeriggio di luglio, mentre la tv accesa fa compagnia al tuo lavoro, ti ritrovi ad ascoltare le interrogazioni a risposta immediata alla Camera. E capita che un deputato del Pdl chieda al ministro del Lavoro, Sacconi, di illustrare le misure che il governo ha preso per combattere la disoccupazione giovanile, ovviamente dopo averlo riempito di elogi e ringraziato per il grande impegno profuso. Così, strofini i tuoi occhi per cercare di capire se stai guardando un momento della vita istituzionale del tuo Paese o una recita dilettantesca incentrata sul grottesco. Ascolti Sacconi che risponde, con volto serio ed espressione convinta, quindi la “controreplica” di un altro deputato del Pdl che, soddisfatto della risposta del ministro, tiene a ricordare che i problemi del lavoro giovanile derivano dalla crisi, che l’Italia ha retto e regge rispetto ad altri paesi, che, nonostante tutto, negli ultimi anni, ci sono stati 3 milioni e mezzo di nuovi occupati e che i giovani italiani non lavorano perché si laureano più tardi di quelli europei e perché non vogliono più fare i lavori manuali.

In questi casi, meglio prendere il telecomando, spegnere e lavorare senza il sottofondo inutile e spesso irritante della tv. È il 20 luglio, una data dolorosa in Italia, quella in cui si ricorda il massacro di Genova, l’assassinio di Carlo Giuliani, un ragazzo di 23 anni che voleva cambiare il mondo. Coincidenze, casualità, quanto basta per avere la massima chiarezza su ciò che vuol dire essere giovane in Italia, in un Paese di vecchi, di ruderi a due gambe, con facce flosce e fondoschiena flaccido, che si accomodano sulle poltrone del presente per non guardare in faccia il futuro. Uno spazio stretto soffoca il percorso di vita di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, tutti costretti ad aggrapparsi al cornicione della precarietà pur di non cadere, di andare avanti, tutti sottoposti all’ipnotico invito a considerare i diritti un valore superato, le forme di rivendicazione un costume desueto, la speranza un lusso esclusivo.

Rinchiusi tra le accuse di chi si fotte il nostro futuro, danzando tra seni e sederi al vento e banchettando à la carte con le migliori energie del nostro Paese, e le volgari indifferenze di chi si è trincerato dentro le mura dorate di una casta avida e sfacciata. La disoccupazione cresce, raddoppia, disegna una cappa scura e paralizzante sul cielo di generazioni ansiose, e la colpa viene scaricata su di loro, senza alcuna remora, senza alcun pudore. La politica, da lunghissimo tempo assente dai temi del lavoro, del precariato e dello sviluppo dell’occupazione, ha decretato la sua sentenza su di noi e sui nostri figli, se mai ne avremo, se mai potremo permetterceli. Inutile star qui a ricordare tutte le colpe e le assenze di chi avrebbe dovuto mostrare un senso di responsabilità di cui invece non vi è mai stata traccia. Quel che però va detto è che continuare a giocare al capro espiatorio per coprire le proprie vergogne è pericoloso ed offensivo, oltre che profondamente ingiusto. Il problema di fondo è concettuale, ideologico.

In questo dannato Paese c’è stato un rovesciamento totale dei ruoli, la rottura di una condizione di equilibrio naturale che adesso è complicato ristabilire. Il conflitto generazionale, negli anni passati, è stato sempre sollecitato dai giovani, dalla loro voglia di ribellione, da quell’entusiasmo e da quell’irruenza che si scontravano con le mentalità e con il tentativo dei più adulti di contenerli per mantenere le proprie posizioni di vantaggio. Oggi, invece, sono i più vecchi ad alimentare lo scontro, a provocare, ad insultare, a cercare di schiacciare coloro che, prima, sono stati scientificamente svuotati di eventuali ragioni di ribellione. Il benessere in cui molta parte del tessuto giovanile è cresciuto ha privato i ragazzi di quella fame e di quella voglia di cambiamento necessari per assumere un ruolo centrale nella vita di una nazione, mentre chi quella fame ce l’aveva finiva (e finisce tuttora) col non trovare sponde politiche e formazioni sociali adeguate, a causa del declino di contenitori di diritti quali i partiti e i sindacati. La cultura, poi, è diventata un’entità da bandire, da combattere, per evitare che il senso critico si diffonda.

Eppure, nonostante questo gioco melmoso e meschino, l’Italia è piena di giovani qualificati, intelligenti, animati da ideali seri e puri, talenti schiacciati da un sistema economico-imprenditoriale che quasi mai premia il merito, preferendo scegliere la convenienza a scapito della qualità. Ma come vengono trattati quei giovani, quelli che ancora sperano di cambiare il mondo, che si indignano, che partecipano e si interessano ai problemi che la globalizzazione pone? È la sera del 20 luglio che mi fornisce la risposta, sono le immagini dei pestaggi della polizia a Genova, le cariche contro le mani alzate e unite dei pacifisti della rete Lilliput, gli idranti, i lacrimogeni lanciati ad altezza d’uomo contro ragazzi che manifestavano pacificamente, le violenze efferate dentro la scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. E soprattutto la risposta sta nel corpo senza vita di un ragazzo di 23 anni, coperto di sangue, con un buco in testa e le ossa schiacciate dalla “passeggiata” che il Defender dei Carabinieri ha fatto sopra di lui.

Non sono convinto che Carlo Giuliani sia un eroe, non l’ho mai pensato. Gli eroi non indossano il passamontagna, però di sicuro quel ragazzo aveva dei sogni, sperava in un mondo diverso, fatto di diritti, di giustizia. Per quella ragione era sceso in piazza, come fanno altre migliaia di ragazzi in questo Paese. Voleva giustizia ed invece assisteva ad una violenza continua, assurda, inspiegabile. Una violenza con dei detonatori (i black blok), degli esecutori (le forze dell’ordine) e dei mandanti (la politica: Scajola, Berlusconi e Fini, il quale deve ancora spiegarci che ci faceva alla centrale operativa dei Carabinieri di Genova). Una violenza che ha partorito un senso profondo di ingiustizia, che ha acceso una miccia terribile. Ed è stata quella miccia che ha spinto Carlo Giuliani ad imbracciare un estintore, per scaricare tutta la sua rabbia su quella camionetta che simboleggiava la mano dura del potere.

E se da una parte è stupido e forzato definirlo un eroe, dall’altra è squallido e strumentale colpevolizzarlo per quel gesto e per quel passamontagna. Nel mezzo, c’è solo un’immagine, una coincidenza postuma: mentre in Parlamento c’è chi sputa sulla verità di una condizione drammatica, cercando di nascondere la realtà di una terribile situazione fatta di precarietà, emigrazione, distacco, emarginazione, incertezza angosciante e resistenza dura, dieci anni dopo c’è ancora il rumore di quei due spari, c’è quel corpo che stramazza al suolo, c’è il volto di quel ragazzo pieno di sogni, di idee, di speranze a ricordarci quanto crudele sia questo Stato nei confronti di chi decide di rivendicare diritti e di farlo anche per gli altri, facendosi carico di problemi giganteschi, dedicando il proprio tempo a temi e a questioni che minacciano il futuro dell’intera umanità.

C’è ancora la fisionomia concreta ed insanguinata di una generazione che rifiuta di essere considerata una categoria astratta e omogenea, a ricordarci che l’Italia peggiore è seduta in un palazzo dorato e superbo, lontano anni luce dalla vita reale. Che possa crollare, prima o poi, sotto i colpi decisi di un vento fresco e pulito.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org