Una candela, una bussola e un sacco da boxe, devo ricordarmi di tenerli a portata di mano ogni volta che si fa sera e piazzarli da qualche parte, nella mia stanza. La mattina seguente potrebbero essermi utili. Se penso a Bella Ciao, al risveglio del partigiano, mi domando come potremmo identificare, oggi, gli invasori. Quanti sono e che divisa indossano? Offro quotidianamente il mio augurale buongiorno all’Italia e spesso mi accade di strizzare gli occhi e non vedere luce. Mi servirebbe una candela. Sono i giorni del ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ferite aperte di una nazione trafitta, macchiata dal rosso di un sangue senza pace e senza giustizia, marchiata dal nero di un mistero fitto e indicibile. Dovrei ascoltare le istituzioni più importanti parlare di quel periodo, analizzarlo, unirsi in coro alla gente che chiede verità, che vuole capire come è cambiato il corso della storia di questo Paese all’inizio degli anni ’90, chi ha beneficiato di quel sangue, di quel tritolo che ha mandato in frantumi lo Stato, quello vero, l’unico possibile, perché ciò che è deviato non ne è parte, non può e non deve esserne parte.

Eppure i miei occhi e le mie orecchie assistono ad altro, ad un presidente della Repubblica che solleva un conflitto di attribuzione per delle intercettazioni che lo toccano in maniera assolutamente indiretta nell’ambito delle indagini condotte da una procura, quella di Palermo, che sta tentando in ogni modo di arrivare a quella maledetta verità, indagando, scavando, andando sempre più a fondo, con coraggio, senza tentennamenti, combattendo contro il fuoco nemico che, ogni giorno, scarica i suoi proiettili di fango e veleno. Dovremmo essere tutti con loro, dovremmo avere con noi il Capo dello Stato, invece nulla. Napolitano sceglie di agire secondo una prassi costituzionale che, pur se formalmente legittima, è assolutamente inopportuna e presta il fianco a chi, tra i satrapi del potere marcio che da venti anni colonizza la democrazia, ne approfitta per colpire e indebolire lo strumento fondamentale delle intercettazioni e per attaccare i magistrati. Mi sfugge il senso di una scelta del genere in questo momento, non ne percepisco le ragioni, l’eventuale valore strategico.

È tutto strano, caotico, di un caos quasi indotto, come fosse un diversivo necessario per permettere a qualcuno di fare i propri comodi con la massima discrezione. Una sensazione che mi accompagna dal giorno delle dimissioni di Berlusconi, quando pensavo che forse eravamo dentro a un film già scritto, un copione concordato in stanze segrete dall’atmosfera noir, con l’abdicazione della politica a un gruppo di manovratori che, in nome dell’emergenza e di indici finanziari dai nomi vacui e privi di reale significato, avrebbero potuto rivoltare l’Italia e realizzare quelle misure che la classe conservatrice e l’élite dei banchieri chiedevano da anni per spostare l’ago della bilancia a vantaggio di chi “possiede”, sacrificando i cittadini, la cultura e il welfare. Un colpo di mano, a cui hanno partecipato anche coloro che avrebbero dovuto opporsi e che invece, in virtù di una scelta liberista compiuta anni fa come segno di espiazione di un passato marxista, sono diventati la barricata di protezione del nuovo ordine.

Allora accade che davvero ti senti smarrito, anche se sai bene cosa servirebbe a questo Paese e cosa bisognerebbe dire, quali confini bisognerebbe marcare con durezza e senza tentennamenti. Diventa necessario non perdere le tue certezze. Ti serve una bussola. Intanto, mentre pensi, rimugini, osservi, loro vanno avanti, spediti, e lo fanno appositamente a ridosso dell’estate, perché si sa che l’Italia si ferma con il caldo, anche le rivolte, le resistenze spesso rinviano a settembre, convinti che i problemi e le minacce vadano in ferie a ripararsi dalla canicola. Loro sono furbi, scaltri, severi, autoritari. Hanno fretta e buona dose di arroganza. Così adesso devono individuare una pattumiera dentro cui vomitare i propri avanzi e i propositi più arditi, i desideri più nascosti. Eccola servita: la Sicilia. Terra di Sud e di fatiche, di conti aperti con una storia che l’ha declassata dal momento dell’Unità d’Italia.

Terra di talenti e cultura, umiliata, derubata e abbandonata in nome degli interessi clientelari della classe politica di tutta la nazione, da Sud a Nord. Serbatoio di voti ottenuti con la scientifica conservazione della povertà, delle poche opportunità, delle continue svendite di territorio che i governi nazionali hanno concluso con industriali di ogni sorta e provenienza, con stati esteri, con chiunque volesse accomodarsi e partecipare al saccheggio. Un branco che ha nomi, cognomi, facce, storie. Un branco famelico a cui il popolo siciliano, nel silenzio strategico dei media e della politica, ha reagito più e più volte, conducendo battaglie durissime, per cercare di difendere il proprio territorio, di respingere modelli di sviluppo scellerati imposti dall’alto, di fare della Sicilia una terra di avanguardia, di sviluppo sostenibile, di opportunità di lavoro.

Una terra che ha subito l’umiliazione dell’indifferenza nazionale di fronte alle calamità naturali che sono state facilmente e stupidamente attribuite ai siciliani, tutti abusivi, tutti senza regole, tutti mafiosi. Ora perfino l’onta di un commissariamento che è indegno, incostituzionale, ingiusto, razzista. Un golpe da parte di uno Stato che si ricorda della Sicilia solo quando può mettervi sopra le mani per chissà quali progetti. Solo a pensare ad un piano specifico di Monti mi vengono brividi e fremiti di rabbia.

Perché immagino benissimo quali mire speculative possano essere soddisfatte, con la scusa dell’emergenza. Non è possibile che tutto questo stia accadendo in questo Paese, dopo anni di malaffare sfacciato, di passeggiate sul fondo a raschiare la muffa e i liquami fuoriusciti dai palazzi del potere. Al peggio non vi è mai fine, ma credo che ci siano dei limiti. Ecco, adesso avrei bisogno di un sacco da boxe. E di un popolo che sappia tornare subito in piazza. Unito.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org