L’arresto, in Egitto, di Ahmed Abdellah, consulente della famiglia Regeni, apre un altro capitolo di una sempre più difficile relazione tra il nostro Paese e quello nordafricano, a seguito della responsabilità, dei depistaggi e delle bugie sulla morte di Giulio Regeni. La situazione si è fatta insostenibile e in Italia sono tanti a chiedere verità per Giulio. Onestamente, assistere a questa mobilitazione popolare, vedere ovunque striscioni, appelli, petizioni dà un po’ di sollievo. Perché è fondamentale non far calare minimamente l’attenzione sull’assassinio di questo giovane e bravo ricercatore, affinché si possa far luce e ottenere giustizia. Il governo italiano, pertanto, deve muoversi e agire con decisione, senza tentennamenti. Un’azione simile l’Italia dovrebbe intraprenderla anche nei confronti di se stessa, con riferimento ad alcuni gravi fatti della propria storia, più o meno recente, segnata da identici depistaggi, verità rimaste nascoste, ingiustizie impunite.

Sì, perché nell’indignazione giusta e sacrosanta per il caso Regeni e nei giudizi duri sull’apparato militare egiziano, c’è un riflesso beffardo e doloroso: quella stessa indignazione dovremmo provarla anche verso il nostro Paese e i nostri apparati militari. Quelli che negli anni si sono macchiati di violenze inaudite contro ragazzi e uomini innocenti, morti senza una ragione, scomparsi dal mondo delle proprie famiglie e dei propri amici senza un perché, lasciando strati di dolore che il tempo non riesce a lenire. Allora, accanto a Giulio, dovremmo metterci, ad esempio, anche Emanuele e Tony, uccisi dentro due caserme dell’esercito italiano. Due ragazzi preparati, allegri, con un futuro davanti che si è sbriciolato mortalmente dentro a una cortina misteriosa e invalicabile fatta di violenza, silenzi, contraddizioni, bugie. Due ragazzi che, a distanza di 15 anni l’uno dall’altro, hanno condiviso lo stesso atroce destino.

Emanuele Scieri e Tony Drago, per puro caso, condividevano anche il luogo di origine: Siracusa. Il primo era un avvocato in erba, partito per la cosiddetta “Naja”, la leva obbligatoria che un tempo costringeva i giovani a perdere un anno tra caporali e superiori esaltati. Dopo la laurea aveva la Folgore, i parà, ad attenderlo per ottemperare a quell’obbligo. Aveva 26 anni. Era sereno Emanuele. Lo era stato anche nella sua ultima telefonata. Sarà ucciso, dal nonnismo di assassini ancora ignoti, la notte del 13 agosto 1999. Il suo corpo verrà ritrovato sotto una torretta di asciugatura dei paracadute tre giorni dopo, il 16 agosto. In mezzo, tre giorni di indifferenza, omissioni, lacune, telefonate e manovre strane tra i responsabili della caserma Gamerra di Pisa. Tre giorni di silenzi. Che non sono mai finiti. Oggi, una Commissione parlamentare di inchiesta prova a riaprire un caso che da diciassette anni è sepolto dentro l’omertà dello Stato italiano e del suo esercito.

Tony Drago, invece, era un ragazzone di un metro e novanta che sognava di entrare in polizia, si era laureato in Scienze dell’Investigazione e aveva preso il brevetto di paracadutista. La leva obbligatoria ormai non esiste più, è stata abolita proprio dopo la morte di Scieri. Tony quindi si era arruolato volontariamente nell’esercito per inseguire il suo sogno di entrare poi in polizia. Aveva 25 anni. Lo hanno trovato morto il 6 luglio del 2014 nel cortile della caserma Sabatini di Roma. “Suicidio”, dicono subito l’esercito e i responsabili del suo reggimento. Alcuni commilitoni parlano di problemi con la sua ragazza e di depressione. Tutte cose già smentite. Esattamente come qualcuno aveva provato a fare con Emanuele 17 anni fa, anche nella vicenda di Tony parte subito la strategia per depistare e per deresponsabilizzare l’esercito, i “nonni”, gli assassini. Che rimangono sempre nell’ombra. Impuniti. 

Anche nel caso Drago ci sono molte contraddizioni, dettagli poco convincenti, lacune ampie, comportamenti strani da parte dei responsabili della caserma. Anche per lui, come per Emanuele, le condizioni del corpo e lo scenario del luogo del ritrovamento presentano delle anomalie incompatibili con il suicidio o con l’incidente. Tutte verità che giacciono tra i segreti inossidabili dell’apparato militare italiano. Segreti sulla prematura fine di giovani, quasi coetanei di Giulio, che probabilmente hanno visto la sofferenza e la violenza con i loro occhi prima di essere uccisi. Emanuele è rimasto in agonia per molte ore. Poteva essere salvato. Tony, chissà, magari anche lui scopriremo che non è morto subito, che si poteva salvare. Sono dolori immensi questi, ferite che non potranno mai cicatrizzarsi nel cuore di familiari e amici di questi giovani senza giustizia. La verità è l’unica cosa che potrebbe un minimo lenire la rabbia e tamponare il dolore.

Lo stesso vale per i casi di Stefano Cucchi, Riccardo Magherini, Giuseppe Uva e tanti altri che ancora non hanno ottenuto giustizia e i cui familiari sono costretti a sopportare l’infamia di assoluzioni discutibili, minimizzazioni o addirittura l’assenza di colpevoli. Per tutti loro dobbiamo chiedere verità. Dobbiamo pretendere che questa richiesta venga ascoltata, che la ricerca di queste verità sia affiancata a quella riguardante Giulio Regeni. Perché se nella vicenda del giovane ricercatore dobbiamo lottare con l’Egitto per poter ottenere giustizia, negli altri casi basterebbe spazzare via l’omertà dei nostri reparti militari e delle forze di polizia. Basterebbe intervenire rivelando ciò che fino ad ora è stato tenuto nascosto e denunciando i responsabili, i cui nomi, ne siamo certi, sono noti quantomeno ad alcuni generali o comandanti del nostro esercito e a funzionari dei nostri apparati di polizia.

Dovremmo dare il buon esempio, se vogliamo essere credibili nel pretendere la verità dagli altri. E di buon esempi, se si pensa anche ai famigerati fatti del 2001 a Genova, con le violenze e le torture alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto, storicamente ne abbiamo visti pochi. Se davvero vogliamo la verità su Giulio, dunque, dobbiamo chiederla con forza anche per quei casi nei quali i carnefici indossano la nostra divisa e nei quali i luoghi di tortura e morte sono le nostre caserme. Ecco perché sarebbe bello se si mettessero insieme, uno accanto all’altro, tutti gli striscioni che chiedono verità e giustizia: per Giulio, Emanuele, Tony, Giuseppe, Stefano, Riccardo e gli altri. Anche quelli di cui si parla meno o non si parla più.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org