C’è qualcosa che disturba quando si parla di ciò che accade alle frontiere di quest’Europa che si chiude, riempiendo il suo presente di muri. C’è una consuetudine che è forse frutto di un’emozione inconsapevole, di buonafede, ma che spesso ha la conseguenza di confondere, discriminare i piani, ottundere l’intelletto, deviare il ragionamento rispetto a quello che c’è da fare concretamente. Quando avviene un naufragio, quando il dramma dell’immigrazione raggiunge in maniera diretta, piena, “violenta” le nostre case, attraverso le immagini, le testimonianze, le lacrime, le vittime, c’è quasi un obbligo morale di rispondere, di fermarsi a guardare, di arrabbiarsi. C’è l’emotività piena di dolore che ci fa piangere, pregare, mostrare pietà.

Le file di cadaveri rinchiusi nei sacchi nella banchina di Lampedusa, in quel tremendo naufragio del 2013, la foto del corpo del piccolo Aylan sulla riva, le immagini di altri corpi sulle spiagge delle frontiere mediterranee: tutto questo colpisce, scuote, sconvolge. Il film “Fuocoammare”, ad esempio, premiato a Berlino, tocca l’anima, ti strappa lacrime che sgorgano dal calore con cui il tuo petto reagisce istintivamente all’orrore, alla morte, alle facce stravolte di chi, per destino, si ritrova superstite e può continuare a sperare di ricominciare a vivere. Lo stesso avviene davanti ai reportage, ai racconti, agli articoli che da anni mostrano quanta crudeltà ci sia nel viaggio, tra deserto e carcere, tra violenze e torture, tra onde e nafta.

Ci troviamo spesso davanti a quel dolore che scorre sulla pelle di centinaia e centinaia di migliaia di esseri umani in fuga, ma poi, d’improvviso, sembra quasi che lo dimentichiamo e che avremo bisogno di qualcuno o di un fatto che ce lo rinfreschi. Come se violenza e dolore fossero sempre e solo qualcosa di esterno a noi, al nostro mondo, ai nostri confini. Qualcosa che entra a far parte di noi solo quando ci sono i morti o la crudeltà, nei luoghi di partenza o in mezzo al nostro pezzo di mare o sulla porta d’ingresso sulle nostre rive. Abbiamo bisogno dell’emozione invadente di una tragedia di cui non riusciamo a sentirci responsabili, perché come responsabili, in questo caso, non possiamo che indicare i governi europei che fanno poco, ma soprattutto i trafficanti o i governi e i gruppi terroristici nelle nazioni di origine. Tutto o quasi, anche nella produzione culturale, sembra seguire questo canovaccio, accompagnare questa onda emotiva. Ma quanto serve, quanto è concretamente pura questa forma di osservare i fatti e di reagire ad essi?

Questo è il dubbio che disturba, che porta a chiedersi perché ci si mostra caritatevoli solo dinnanzi alla morte e si rimane invece indifferenti o si diventa addirittura ostili dinnanzi ai vivi. Le facce di coloro che riescono a salpare dalle motovedette, stremati, impauriti, terrorizzati, ma vivi, sono le stesse che poi lasciamo marcire nelle strutture di identificazione, negli hot spot, o lasciamo fuori dalle nostre frontiere, al freddo, tra i lacrimogeni e le cariche dei poliziotti al soldo di governi spietati. Sono donne, bambini, uomini in fuga dall’orrore, dalle guerre: li costringiamo a ricominciare un’altra guerra, di cui in questo caso siamo gli unici responsabili, poiché la armiamo con la nostra indifferenza, con l’ignoranza, lasciando che la nave Europa continui a imbarcare l’acqua sporca della xenofobia, dell’egoismo, della disumanità. Di questa guerra non ci occupiamo abbastanza.

Ogni singolo Stato si autoassolve scaricando sull’altro la responsabilità dell’orrore che tutti insieme produciamo contro gente inerme, sputando su di loro con la nostra saliva infettata da convenienze e da paure illogiche e artificiali. Piangiamo i morti e condanniamo i vivi, colpevoli di avercela fatta. Piangiamo i morti perché ci costa poco farlo, ci costa poco parlarne. Massacriamo i vivi, perché a causa loro dobbiamo misurare il nostro scadente livello di solidarietà e umanità. Ecco cosa disturba: pensare che non si riesca ad andare oltre la retorica, il pianto, la facile emotività. La stessa che porta ad affrontare, come emergenze, situazioni che trasciniamo da anni e di cui i nostri governi (inclusi i cittadini che li sostengono e votano) e le istituzioni internazionali sono artefici, colpevoli di politiche folli o di ignavia.

Non sarebbe più giusto allora che, oltre a mettere in campo strumenti e risorse per rendere sicuri i viaggi, ci si occupasse più dei vivi, perché possono essere ancora salvati, possono ancora ricevere diritti, accoglienza, tutela? Sarebbe certamente più utile mettere in secondo piano l’emozione, che ha una durata troppo breve e produce molto poco, e acquisire invece senso di responsabilità affidandosi maggiormente alla luce del pensiero e dell’umanità, per chiedere, pretendere, esigere che questa falsa democrazia europea abbatta la sua struttura di spietata fortezza e accolga, senza restrizioni o tentennamenti, chi bussa e implora aiuto. Altrimenti, è meglio scioglierla subito e lasciarla andare verso il suo fallimento politico, sociale, umano. E verso un futuro terribile, che avrà il puzzo nauseabondo di un passato marcio.

Massimiliano Perna –il megafono.org