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Terra e sudore. Lacrime che scorrono e si accomodano sui sedili di autobus dimessi, che fanno il giro, passano di zona in zona, come fossero venditori ambulanti, arrivano, si fermano, ripartono. Il biglietto si paga con lacrime e sogni. Disperati e stanchi, ma speranzosi. Un controsenso che vive al confine dell’animo umano, tra la rassegnazione affaticata di un presente che non c’è, non può esserci, e la speranza coraggiosa di un futuro che è lì davanti, a distanza di molti chilometri fatti di strade, aree di servizio, caselli, dogane, frontiere.  

In Sicilia si parte ancora, si emigra, si lascia quello che si ama e si finisce per odiare. Non odierai mai la terra, ma la situazione che è figlia di un miscuglio di colpe e colpevoli: uno Stato che non è mai esistito, una politica che invece, purtroppo, ha fatto sentire la sua esistenza nefasta, nella gestione corrotta, nell’arroganza, nell’assenza di servizi; un sindacato che ha perso il suo ruolo, abdicando proprio nella fase in cui ve ne sarebbe più bisogno; la gente, la stessa che parte, che non ha saputo spaccare un sistema che offriva favori nutrendo gli interessi individuali e fottendo quel dannato senso di comunità virtuosa che non si è mai riusciti a salvare.

Si parte. Si ritorna al passato. Il dato era già allarmante un decennio fa, quando ogni anno si contavano 20mila emigranti, in gran parte giovani e laureati o qualificati, che prendevano la valigia e lasciavano tutto in cerca di fortuna altrove. Prendevano treni o aerei e fuggivano. Sputando amarezza e inghiottendo la malinconia. Direzione nord Italia o Europa. Svizzera, Germania, Francia, Inghilterra, le nuove patrie, quelle già piene dei discendenti di quei siciliani che avevano riempito la letteratura del ‘900 con le storie di emigrazione, con le caratteristiche tipiche, le figure romanzate, gli stereotipi, le canzoni.

Dieci anni fa. Ricordo ne parlammo in un convegno, ricordo che portai dati, storie, punti di vista. Erano presenti anche politici, qualcuno in futuro sarebbe anche diventato membro di un governo che ha avuto poca vita. Avevo ingenuamente proposto delle soluzioni. Sì, ho scritto “ingenuamente”, perché le soluzioni, in realtà, non le vuole nessuno. Né a Roma né a Palermo, dove anche l’ultima speranza si è rivelata falsa.

Si andava via in aereo o in treno, allora. Oggi si va via anche in autobus. Partono pure quelli che prima restavano. Partono meccanici, cuochi, casalinghe, madri, padri, braccianti, commesse. Hanno venti, trenta, quaranta e perfino sessant’anni. Hanno figli che lasciano qui, mogli o mariti che salutano nella speranza di ricongiungersi presto. Partono da Palma di Montechiaro, Ribera, Sciacca, Palermo, ma anche da altri centri in provincia di Catania o Caltanissetta. Ne partono tanti, centinaia ogni settimana, un esodo silenzioso che svuota le città. Di nuovo. Come nel passato fatto di distacchi e addii.

E in questo esodo non mancano le tensioni, non mancano le solite becere parole che qualcuno pronuncia contro gli immigrati, ritenuti ingiustamente colpevoli di rubare il lavoro e di abbassare il prezzo di quel lavoro. Altri, invece, dicono di sentirsi come loro, come quei giovani che affrontano il mare (in questi giorni ne stanno arrivando tanti) per una speranza. Nessuno però dice che i migranti spesso fuggono dalla guerra, accettano di fare i lavori che altri non vogliono fare, perché nessuno di noi ormai vuole fare il muratore, il bracciante o fare le pulizie.

Una volta, un calzolaio molto anziano della mia città, il quale ci impiegava una settimana a consegnarti le scarpe per via della folla di clienti, alla mia domanda sul perché lavorasse da solo e non avesse un aiutante, mi disse: “Non viene nessuno a lavorare qui. Nemmeno i miei figli. Quando sarò troppo vecchio dovrò chiudere e questa bottega non esisterà più. Il lavoro di una vita morirà con me. Voi giovani questi lavori qui li schifate. Volete fare tutti la bella vita”.

In effetti molti preferiscono andar via, magari finiscono a fare lavori pesanti nelle fabbriche, nei cantieri o nei ristoranti di mezza Europa o del Nord. Va anche detto che lo stesso lavoro, in Europa o al nord, lo pagano il doppio rispetto a quanto ti pagano (quando ti pagano) giù, ma la colpa anche di questo non è sicuramente della vittima, ma nemmeno solo dello sfruttatore.

L’abbassamento dei livelli di paga è colpa anche di chi ha smesso di combattere, ossia quei sindacati che nelle campagne, nelle fabbriche, nei cantieri non ci sono più, o meglio non mordono più. I loro rappresentanti pensano soprattutto a costruirsi un’immagine moderata e spendibile politicamente, che un domani, non si sa mai, ci potrebbe scappare una poltrona a Palermo o a Roma o chissà dove. Non ci sono i Placido Rizzotto, i Pio La Torre, i Turi Carnevale, considerati quasi alla stregua di sagome di un passato che ti dicono essere profondamente diverso e lontano.

Eppure non è così, perché i meccanismi di sfruttamento, oggi, in questo capitalismo decadente che batte forte la coda per continuare a colpire e sopravvivere, sono ancora più estesi e amplificati, con il carico di ingiustizie che è sempre più pesante. Ecco perché è stupido volere l’abolizione o lo scioglimento dei sindacati; qui il tema è l’opposto, ossia che abbiamo enormemente bisogno di un sindacato che ritrovi la sua identità, liberandosi della politica. Quando vengono meno diritti e tutele le conseguenze sono dannose per tutti. Credo che,  in questo Paese, questa cosa in molti non la capiranno mai.

Poi c’è un altro problema, forse la responsabilità maggiore, quella di chi per anni ha votato e alimentato un certo sistema, eleggendo rappresentanti che hanno divorato il meglio di questa terra, mangiando ogni risorsa e suddividendo qualche briciola più o meno sostanziosa ai propri sodali e qualche avanzo alla gente che elemosinava qualcosa in cambio di un voto. La stessa che oggi si lamenta e parte, dimenticandosi che la mano che ha accoltellato il proprio presente e quello dei figli è la propria.

Infine c’è la solita dannata vocazione individualista dei siciliani, che ragionano per interessi propri, che non hanno mai avuto un senso di comunità e di popolo, una visione di bene comune e non privato. L’umanità, la forza, il coraggio, la dignità, l’acume, la vitalità, l’instancabilità dei siciliani costituiscono un patrimonio che viene disperso nell’isolamento, che non è un fatto solo geografico, ma psicologico, interiore. I siciliani, quando lottano, quando provano a governare al meglio le situazioni più difficili, sono sempre soli. Maledettamente soli. Si portano dentro quell’isolamento che è motivazione per chi lotta e alibi per chi isola.

Soli come quando partono. Anzi, come quando partiamo e lasciamo quello che abbiamo costruito. Sogni, rapporti, affetti, luoghi, sapori, ricordi incantevoli, scenari che è difficile comprendere se in Sicilia vai solo in vacanza o per lavoro saltuariamente. C’è tutto un mondo che ti accompagna sin da bambino, uno stile, una serie di sfumature straordinarie, difetti che somigliano a pregi, pregi che divengono difetti, debolezza e grandezza, miseria e nobiltà, bellezze che tramortiscono gli inferni e  inferni che minacciano o mortificano la bellezza. Uno spettro di contraddizioni, ma anche di sensazioni, nostalgie, passioni, dolcezze, tutto quello che un essere umano potrebbe desiderare. Ossigeno, che poi, d’improvviso, ti viene tolto, anche se nei luoghi di arrivo trovi altre cose, forse più importanti in questo mondo, ma che non riescono mai a colmare del tutto quel che hai lasciato.

Solitudine che brucia e che ti porti dentro, nel cuore che è isola e nelle vene che sono mare e porti conosciuti.

Solitudine, che a questa Italia è sempre convenuta, perché ha prodotto ricchezza, manovalanze, maestranze di pregio a costo ridotto, infaticabili, preparate, mentre nell’isola è rimasta una classe dirigente molle pronta a svendere le inestimabili ricchezze di questa terra.

Ecco perché di questo esodo non si occuperà mai nessuno. Perché deve rimanere in silenzio. Non basterebbe un ponte a spezzarlo questo silenzio, a far giungere più agevolmente una voce che è strozzata dalle tante ingiustizie, dalle meschinità e dalle decisioni di una storia che parte da prima dell’Unità d’Italia e che in pochi conoscono davvero. Anche al di là dello Stretto.