Qualche giorno fa, sulla vetrina di un negozio di abbigliamento di Siracusa, campeggiava un cartello con scritto: “Cercasi stagista”. Non una rarità in questa come in altre città italiane. Le offerte di lavoro più diffuse, negli ultimi anni, sono infatti quelle che richiedono stagisti. Un genere di annuncio che, tradotto in termini concreti, significa spesso ricerca di un/una giovane, con paga misera (per non dire quasi gratis) rispetto alle ore di lavoro. Stage, una parola che rappresenta ormai un incubo per almeno tre generazioni che, con l’attuale sistema del lavoro, si sono trovate costrette a fare i conti con questa forma legalizzata di sfruttamento. Ai martellamenti con i quali la politica, da Berlusconi a Renzi (e oltre), ha indebolito progressivamente i diritti dei lavoratori, si sono aggiunte le tante forme di tirocinio (stage, alternanza scuola lavoro, ecc.) che riguardano specificamente i giovani e gli studenti.
Minorenni o neomaggiorenni, prestati alle aziende, in teoria per approcciarsi al mondo del lavoro e iniziare a formarsi in attesa di farne parte attivamente, nella pratica, molto più spesso, per essere sottoposti a rapporti di lavoro privi dei diritti e delle condizioni minime di sicurezza. Dopo la morte di Lorenzo Parelli, studente diciottenne friulano morto per schiacciamento all’ultimo giorno di stage, è successo ancora. Questa volta è toccato a un ragazzo marchigiano di soli 16 anni, Giuseppe Lenoci, studente di un centro di formazione professionale, morto in un incidente stradale mentre era a bordo del furgone della ditta presso la quale stava lavorando come stagista. Un’altra vittima di una nazione che, non solo sconfessa quotidianamente il contenuto del primo articolo della sua Costituzione, ma che continua inoltre a calpestare i giovani e i loro diritti, li emargina, li etichetta, rinuncia ad ascoltarli, semplicemente perché non li capisce. E quando li ascolta lo fa per finta, con lo sguardo serio e l’atteggiamento bonario, paternalista, al limite però del compatimento, ben oltre la presa in giro, per poi cambiare umore e far sentire la voce grossa e le mani pesanti.
L’Italia non è una madre patria, ma un padre padrone, per i giovani e gli studenti di questo Paese. Studenti stritolati tra le famiglie degli opposti, iperprotettive o strafottenti, e una società priva di modelli e punti di riferimento, una società nella quale la scuola arranca, gradualmente smantellata e sistematicamente martellata in contemporanea con i diritti del lavoro, punto essenziale di una strategia che è perfettamente funzionale a chi comanda e ha comandato, di qualsiasi schieramento sia parte. D’altronde è sempre più facile condannarle le generazioni più giovani, è ancora più semplice etichettarle, sempre in negativo, nasconderne le idee, sminuirne i sogni e i linguaggi, che sono nuovi e difficili da comprendere se ci rifiutiamo di ascoltarli.
Non è certo con lo stage, con il lavoro sottopagato, con i diritti svenduti e le orecchie chiuse di fronte alle loro recriminazioni che aiutiamo i giovani e che permettiamo alla società di migliorarsi e progredire. Si parla di loro, ma difficilmente a loro. E quando si parla di loro lo si fa puntando il dito, lo si fa sempre quando sono protagonisti di fatti di cronaca o violenza, quando la crudeltà umana conosce la sua enfasi nefasta e, visti i tempi, finisce anche in mostra sui social. Qualche volta si finge di ascoltarli questi ragazzi, ma ponendo sempre un limite. Gli si consente di parlare di ambiente e di tutela del territorio, ad esempio, ma poi li si esclude dalle decisioni, che spesso vanno in senso opposto. Si permette loro di parlare, ma poi si ricorda loro che non hanno la competenza di decidere. Perché le cose serie rimangono degli adulti. Anche quando questi ultimi sbagliano e minacciano il futuro delle generazioni successive.
Se magari poi qualcuno si organizza, scende in piazza, sfida la politica, recrimina, manifesta per i propri diritti, per il lavoro, per la sicurezza del lavoro, contro stage e progetti di alternanza, ossia per tutto ciò che li riguarda direttamente, arrivano le botte e i manganelli. La risposta dura. Quella che è spesso arrivata, in questi ultimi venti anni. Più o meno violenta, a seconda della capacità di resistenza dei giovani. Anche gli studenti che sono andati per strada a manifestare dopo la morte di Lorenzo, sono stati sedati con la violenza dello Stato. Lo stesso che gli impone stage, lo stesso che ha immaginato per loro un ingresso prematuro e insicuro nel mondo del lavoro. Lo stesso che quel mondo prima lo ha precarizzato con riforme indegne, che hanno sempre più svuotato i diritti, concedendo ancora più potere alle imprese.
Se durante la pandemia, dopo aver inizialmente snobbato i lavoratori, le istituzioni hanno in qualche modo salvaguardato i posti di lavoro con il blocco dei licenziamenti, una volta riallargate un po’ le maglie, tutto sta tornando come prima, con il potere sempre più squilibrato, a svantaggio dei lavoratori, ancor più se giovani. Questo è un Paese indecente, un Paese che invecchia e ragiona come quei vecchi nostalgici incapaci di guardare avanti, egoisti, gelosi e rinchiusi nel ricordo della propria gioventù, con i loro linguaggi e i loro codici di comportamento, che naturalmente appaiono sempre migliori e più giusti rispetto a quelli di chi viene dopo. È sempre stato così. Ma, talvolta, negli anni, i giovani hanno trovato punti di riferimento e canali di protesta che hanno permesso di contestare le società precedenti e i loro modelli, smontandone mentalità, visioni e persino leggi ingiuste.
A volte ci sono anche riusciti, altre volte sono stati silenziati per decenni, con una violenza inaudita. Nel primo caso, questo è coinciso con il progresso culturale, politico e sociale, oltre che economico, della società italiana. Nel secondo caso, come ad esempio Genova 2001, si è soffocato il cambiamento con le sue istanze, e il Paese è rimasto impantanato in una palude nella quale ancora oggi siamo immersi. Poi, ci sono le vie di mezzo, quelle di chi ha provato a dialogare con la politica, ma senza difendere la propria autonomia e finendo per farsi invitare al tavolo, per poi farsi fagocitare goffamente. Per la convenienza di alcuni. Detto questo, qualsiasi sia la strada delle generazioni di oggi, se i giovani alzano la voce per i diritti, vanno ascoltati. Per il bene di tutti, per il futuro di tutti, del Paese in primis. E sarebbe ora di lasciarli studiare davvero, puntando sulla scuola e sul suo funzionamento, non sulle aziende. Ché di tempo per conoscere e sperimentare l’onta dello sfruttamento e della precarietà ne avranno abbastanza. Purtroppo.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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