Samia, Fatim e migliaia di altre ragazze come loro. Migliaia di altre persone, uomini, donne, bambini, esseri umani che sognavano una vita normale. Una vita e basta. Quella che, anche quando riescono ad approdare, a giungere a terra, spesso non è possibile trovare. Perché in questa Europa, anche se riesci a schivare le onde, non è detto che tu riesca poi a schivare l’ottusità della burocrazia, le violenze istituzionali, il razzismo e l’ignoranza meschina di tanta, troppa gente. Samia e Fatim sono solo due esempi. Sono due nomi e due volti divenuti tristemente noti.

Ma quanti altri volti come i loro, quante altre storie come le loro giacciono senza nome né foto, non solo sotto il mare, ma anche sotto spogli cumuli di terra sormontati da croci di legno o ferro o marmo. Non lontano da noi, ma dentro le nostre città, nei nostri cimiteri, negli angoli più desolati e poveri. Non so se ci siete mai stati, se siete mai andati a vedere quelle tombe, dove spesso ci sono solo numeri o solo un nome orfano di cognome e date che coincidono con quelle di uno dei tanti naufragi, compresi quelli meno noti, di cui leggiamo la notizia con una timida smorfia di dolore, un dolore che abbiamo vigliaccamente e inconsciamente inquadrato come “abitudine”.

Samia, di cui abbiamo parlato in passato, e Fatim, di cui parliamo oggi, hanno lo stesso sangue e la stessa sofferenza di tutti quelli di cui tacciamo ogni giorno. Avevano la stessa speranza di chi ogni giorno costringiamo ai margini, releghiamo nell’angolo colpevole della nostra indifferenza. Per uno strano caso del destino, inoltre, vengono da due nazioni che ci ricordano le nostre colpe che abbiamo dimenticato. Proprio così, perché la Somalia, da cui proveniva Samia, è stata una colonia italiana e anche noi, lì, abbiamo dato prova di quanto crudele sia stato il colonialismo.

La terra di origine di Fatim, il Gambia, sebbene se ne parli poco, è governata da ben 22 anni dal dittatore Yahya Jammeh. Un regime autoritario e violento con il quale l’Italia ha stretto accordi economici, più volte, allo scopo di frenare l’immigrazione dal paese africano verso l’Europa. La prima volta nel 2010, ai tempi di Maroni ministro dell’Interno, la seconda nel 2015, con il patto confermato e ampliato dall’attuale ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Quest’ultimo accordo è ancora più grave, perché siglato un anno dopo le denunce di Amnesty International sulle gravi violazioni dei diritti umani compiute da Jammeh, che hanno convinto persino l’Europa a interrompere il programma di sostegno e aiuti al Gambia.

Fatim scappava da lì. Da quella violenza e da quella povertà. Per cercare un luogo nel quale vivere e magari continuare a giocare e difendere una porta di calcio, provare a sentire il profumo della libertà. Non ci è riuscita. Non è riuscita a salvarsi. La sua partita con la vita è finita nel modo più tragico. E i colpevoli sono tutti seduti al caldo, non si sentono responsabili e nemmeno la considerano questa storia. Nessuna di queste storie. Per loro sono solo numeri, anche quando hanno un nome. Sono solo corpi da recuperare quando è possibile farlo. Per poi ricominciare la conta. Ho letto commenti amari, parole tristi, di pietà, anche da gente che di solito tace.

Mi chiedo allora: perché si piange solo oggi? Perché solo dinnanzi a un volto con un nome e una storia che qualcuno per fortuna ha raccontato? Perché non accade lo stesso ogni giorno, davanti a chi non trova qualcuno che riveli il loro nome o ne disegni i sentimenti, le speranze, i sogni, il vissuto? Samia e Fatim sono dei simboli. Come lo è stato Aylan. Ma lo sono loro malgrado, perché non avrebbero voluto esserlo. E mentre noi ci battiamo il petto di fronte a loro, che accettiamo maggiormente perché con le loro storie di sport ci sembrano più simili ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze, ci sono centinaia e centinaia di altri esseri umani in balia del deserto, delle onde del mare o delle torture scientifiche della burocrazia.

Centinaia e centinaia di esseri umani che vengono etichettati come minacce, come gli “sporchi, brutti e cattivi” del nostro tempo. E invece sono semplicemente disperati, aggrappati a una speranza. Partono e muoiono. Come Samia e Fatim. Sognano e soffrono. Come Samia e Fatim. Sono esseri umani. Non simboli. Sono quelli per cui dovremmo versare lacrime, indignarci, spenderci, agire ogni giorno. Sono quelli per cui dovremmo pretendere dai governi la cancellazione di accordi vergognosi e complici con chi li tortura e opprime. Sono quelli che dovremmo aiutare a superare il mare e poi a scavalcare i muri che chi guida le leve del potere gli sta costruendo dinnanzi. Sono esseri umani. Siamo esseri umani.

Non possiamo limitarci a gettare fiori in mare e piangere a intermittenza persone che trasformiamo in simboli. Non possiamo aspettare un nome e un volto che raccontino una storia per accendere la nostra pietà o il nostro dolore. Non serve, se non come alibi alla nostra coscienza, come cura egoistica al nostro bugiardo senso di impotenza.

Dovremmo perdere il sonno ogni giorno per tutti quei corpi senza nome dei quali abbiamo perso la storia e l’inestimabile valore umano dei loro vissuti. Dovremmo lottare ogni giorno per fermare l’eccidio di questa umanità in viaggio. Dovremmo asciugarci le lacrime e combattere ogni giorno per aiutare i vivi che giungono da noi e salvarli dalla morsa di un sistema brutale che è ancora più ingiusto del destino di un viaggio maledetto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org