Pochi giorni fa, le abitazioni sequestrate nel 1999 al boss Santapaola, site nel comune di San Gregorio, in provincia di Catania, hanno ospitato un’importante conferenza stampa durante la quale si è parlato dello stanziamento, previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di 300 milioni di euro destinabili alla ristrutturazione dei beni confiscati alle mafie. Alla manifestazione hanno partecipato, oltre al sindaco ed ai carabinieri di San Gregorio, anche il presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, e alcuni rappresentanti di associazioni impegnate nella promozione della cultura antimafia e nel delicato settore del riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Fra queste, anche la Fondazione Giuseppe Fava, con la sua presidente Francesca Andreozzi. Con lei, abbiamo parlato del bene confiscato di San Gregorio e, in generale, della condizione e dei problemi relativi ai beni confiscati alle mafie.
Cosa hai provato ad entrare nelle residenze di uno dei boss più potenti degli anni passati ed il cui clan è ancora potentissimo a Catania (e non solo)?
Entrare nelle ville di Santapaola mi ha fatto sicuramente uno strano effetto. È un grande appartamento vuoto e disabitato da oltre 20 anni, dal momento del primo sequestro. Ma già le poche tracce, le sagome dei quadri sulle pareti, gli spazi nel muro dove probabilmente erano fissati i monitor di sorveglianza, il parquet, gli infissi ancora in perfetto stato, il passaggio nel giardino che collegava le due ville e che probabilmente gli ha permesso di trascorrere lì parte della latitanza, sono bastati per immaginare cosa doveva essere stato quel luogo. Un posto in cui per anni è stato esercitato il potere mafioso, in cui sono state decise le sorti di tantissime persone e dove è stata uccisa la moglie di Santapaola. Mi ha fatto uno strano effetto e mi ha fatto anche arrabbiare l’idea che per così tanto tempo quel luogo sia restato vuoto e che quelle siano ancora le “ville del boss Santapaola”, che non siano diventate altro.
Sei stata alla conferenza stampa per denunciare lo stato di abbandono di molti beni confiscati alle mafie. Qual è la condizione attuale di questo tipo di beni in Italia?
Nell’ultimo periodo c’è stata una denuncia dell’abbandono, da parte delle istituzioni, di tutti questi beni. Sapere che per oltre 20 anni questi luoghi sono rimasti chiusi deve essere, da oggi in poi, uno stimolo per muoversi e fare altro. In Italia sono tantissimi i beni che sono stati confiscati ma che poi sono rimasti inutilizzati perché non è stato messo a punto un sistema che li renda effettivamente fruibili. Questi beni, infatti, per poter essere messi in uso, devono avere dei progetti che siano sostenibili. C’è adesso, nel P.N.R.R., un bando che ha stanziato 300 milioni di euro per ristrutturare i beni confiscati. Il bando è aperto solo ai Comuni perché, nell’iter, i beni confiscati vengono affidati ai Comuni che a loro volta possono poi emanare bandi per affidarli ad associazioni che ne facciano un riutilizzo sociale. Ma troppo spesso le associazioni non hanno le risorse per poter rimettere in sesto un luogo che è stato abbandonato per così tanto tempo, soprattutto perché l’investimento (che magari è corposo) viene fatto per un periodo di gestione che è relativamente breve (6 o 7 anni). Attraverso questo bando si potrebbero invece rimettere in sesto tutti quei beni che sono rimasti abbandonati e avviare poi una rete con le associazioni perché questi vengano veramente riutilizzati dal territorio.
Perché è importante insistere sul tema dei beni confiscati e cosa si può fare per migliorarne la gestione che in questi anni molte volte ha fatto acqua?
Come ho scritto di recente, credo che la rivincita non può essere solo la confisca di un bene ma anche quello che se ne fa. Dalla legge Rognoni- La Torre sono passati ormai 40 anni; abbiamo fatto sicuramente moltissima strada ma, se la confisca di un bene toglie potere al mafioso, la vera rivincita deve essere necessariamente restituire quel bene alla società altrimenti rimane qualcosa che è estraneo, mentre è proprio il ragionamento sulla trasformazione di ciò che un tempo era criminale che può rafforzare la comunità. L’esperienza che noi abbiamo fatto al “Giardino di Scidà”, ad esempio, è un’esperienza piccola (perché è un bene piccolo, situato al centro di Catania) ma ha fatto un po’ da trampolino per decidere di approfondire quale era lo stato dei beni confiscati nel territorio ed è emerso che molti di questi erano stati confiscati solo sulla carta, ma non c’era mai stato uno sfratto e, quindi, continuavano ad essere gestiti ed abitati dalle persone a cui erano stati sottratti.
Qual è la tua speranza rispetto a questo tema?
Sarebbe bello che un giorno, per esempio, non si parlasse più delle “ville di Santapaola”, ma del progetto che vi viene realizzato. Un progetto di qualunque tipo; quello che ha in mente il sindaco di San Gregorio è, dopo aver ristrutturato i locali, di destinarli ad attività rivolte ai ragazzi autistici ed alle loro famiglie. Qualsiasi tipo di progetto, però, non può essere “a scadenza”, non può esaurirsi al termine del periodo di finanziamento, ma deve poter continuare nel tempo. Solo in questo modo, ad un certo punto, rimarrà soltanto una targhetta a dirci che quelle un tempo erano le ville di Santapaola, perché nel frattempo saranno già diventate altro. Qualcosa che sia utile alla comunità.
Anna Serrapelle- il megafono.org
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