Attilio Manca non è stato ucciso. Attilio Manca si è iniettato una dose letale di eroina. Attilio Manca non era nemmeno un bravissimo urologo costretto ad operare l’allora latitante Bernardo Provenzano. Era solo un eroinomane e qualsiasi altra conclusione è puro complottismo becero. Questo sostiene, dalle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, Armando Spataro, procuratore di Torino, dichiarando la sua totale fiducia nelle carte di un processo, quello di Viterbo, che però non ha chiarito le tante lacune, contraddizioni, omissioni. Non c’è spazio per l’argomentazione nell’assolutismo del procuratore, anzi, alle domande precise che la signora Angela, madre dello sfortunato medico, gli pone nella sua replica, egli omette di rispondere rimandando asetticamente alle carte.

Come se Spataro non sapesse quanto quelle carte non sappiano dare una spiegazione a molti elementi che oggi sono oggetto di indagine da parte della procura di Roma. Un intervento inspiegabile quello di Spataro su un processo ancora in corso. Un processo che non riguarda la sua competenza, il suo distretto, né richiedeva una sua opinione in merito. La domanda che anima tutte le reazioni a questa entrata a gamba tesa, rozza e inopportuna, è una sola: perché? Cosa spinge un procuratore in servizio presso un distretto diverso e lontano da quello nel quale è in corso il processo, a metterci bocca, a pontificare, giudicare, negare?

Non è solo una questione di rispetto per la famiglia che, da tempo, come vi abbiamo raccontato tante volte su queste pagine, lotta per fare emergere la verità che il cadavere di Attilio racconta. Qui è soprattutto una questione di diritto e di metodo, di regole e di rispetto del proprio ruolo. Armando Spataro usa la sua esperienza e la sua notorietà per influenzare, attraverso un giornale, il pensiero dei lettori su una vicenda oscura che le carte non raccontano affatto. Eppure Spataro dà per certo quello che riscontra nelle carte che, peraltro, non si capisce perché abbia voluto leggere.

Ha ragione Angela Manca quando domanda al procuratore come possa fidarsi del parere di un medico legale che non ha saputo stabilire nemmeno data e ora del decesso. Come fa, Spataro, a definire indiscutibili le evidenze medico-legali che affermano che i “segni” sul volto di Attilio derivano “dalla posizione in cui la salma fu rinvenuta, riversa sul letto con il viso schiacciato sul materasso”? Lasciando pure perdere l’incredibile questione della negazione del fatto che Manca fosse solo mancino e non ambidestro, il procuratore di Torino dovrebbe dirci se ha davvero visto le foto del cadavere di Manca, con il viso tumefatto (ma Spataro sostiene siano macchie) e soprattutto il setto nasale deviato.

Come si sarebbe procurato ferite simili da morto? Difficile pensare che il procuratore di Torino, dall’alto della sua esperienza, possa credere a tutto ciò. Allora il punto è un altro ed è davvero più grave, perché mette in dubbio la buonafede di colui che è un valido magistrato: il livore personale nei confronti di Antonio Ingroia, oggi avvocato della famiglia Manca e recentemente autore sullo stesso giornale di un intervento sul caso, e di altri magistrati a lui vicini. Ma tutto ciò può spingere un procuratore ad abbracciare una tesi assurda pur di screditare un ex collega con cui ha screzi da tempo? O peggio ancora, per colpire in maniera più o meno diretta una parte della magistratura verso cui non nutre particolare stima?

Non c’è altro da pensare, a meno che non si voglia assumere l’opinione assurda che Spataro sia diventato improvvisamente incapace di giudizio (in questa ultima ipotesi sarebbe stato più facile perdonarlo). Ma, poiché è più che capace, la prima lettura è l’unica che appare plausibile e, purtroppo, parecchio squallida, perché significa che per una diatriba interna a una istituzione si gioca con il dolore e la sete legittima di giustizia di una famiglia a cui è stato ucciso un figlio (a meno che non si voglia credere che si sia iniettato la siringa con la mano destra, senza lasciare impronte digitali, e poi, da morto, si sia pestato il volto e fratturato il naso).

Aggiungerei una piccola postilla, a dimostrazione che la ragione del suo agire sembra proprio legata a questioni di antipatie e scontri interni. Qualche anno fa, a Milano, presso la Camera del Lavoro, nel corso della presentazione e proiezione del film di Pif (“La mafia uccide solo d’estate”), Armando Spataro era sul palco insieme ad altri ospiti per dibattere sui temi legati alla lotta alla mafia. Il discorso cadde inevitabilmente sulla trattativa Stato-mafia. In quell’occasione, Spataro, con l’appoggio del giornalista Giovanni Bianconi, si lasciò andare a un giudizio sommario su Nino Di Matteo e sui giudici palermitani, non risparmiando attacchi proprio a Ingroia e al suo operato di quando era giudice.

Trovai offensivo il modo, i termini e il tono di superiorità sprezzante nei confronti non solo dei suoi colleghi palermitani, ma anche dell’idea dell’esistenza di una trattativa fra Stato e mafia. Nessuno replicò, tranne Claudio Fava, vice presidente in Commissione Antimafia, il quale andò controcorrente e ricordò sentenze, condanne, riscontri, invitando a evitare giudizi sul lavoro dei magistrati impegnati in un’inchiesta difficile e già inquinata dalle continue polemiche politiche. Un lungo applauso nei confronti di Fava cancellò la sgradevole sensazione lasciata dalle parole e dall’atteggiamento di Spataro.

Oggi, anche alla luce di quanto espresso in quell’occasione, risulta più facile capire qual è la ragione che ha spinto un procuratore di un distretto ad esprimersi, in maniera così povera e non argomentata, su un procedimento ancora in essere e su una vicenda oggetto di ulteriori indagini. Aspettarsi un richiamo dal CSM è pura utopia. Ci dovremo accontentare solo della nostra memoria, quando la verità sull’assassinio di Attilio Manca verrà a galla.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org