Esistono due tipi di Paese, due livelli, due facce che non si guardano. O meglio, una delle due non guarda l’altra, ma anzi la ignora, la discrimina. C’è l’Italia del governo, dell’alleanza tra Renzi e la destra berlusconiana (in tutte le sue sfumature), della riforma della giustizia inquinata proprio dalla presenza dentro l’esecutivo di chi ha trascorso decenni a far la guerra alla magistratura. Ed è un’Italia arrogante, che finisce per squagliare, nel caos delle vanità individuali o di parte, ogni possibilità di ragionamento sereno e finalizzato ad un reale rinnovamento. Poi c’è l’altro Paese, quello che lotta, che lavora, che fa il proprio dovere con dedizione, cercando di superare le tante difficoltà, la carenza di mezzi, l’ostilità e l’isolamento. Quest’ultima, invece, è la faccia migliore, non arrogante ma profondamente arrabbiata e discriminata, che alla vanità non può concedere spazio, poiché ci sono traguardi collettivi e concreti da raggiungere.
Soltanto avendo ben chiara questa divisione e la sussistenza di due blocchi distinti, si può comprendere perché in Italia si spendono parole e tempo a discutere di come cambiare la giustizia attaccando e insultando la magistratura, mentre non si dice o fa alcunché di fronte alle minacce e ai fatti inquietanti che riguardano i magistrati antimafia. L’incursione subita dal procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, è incredibile e determinerebbe, in una nazione normale e compatta, unitaria, le dimissioni dei ministri dell’Interno e della Giustizia. Oltre a una messa in stato di accusa del presidente del Consiglio. Nel nostro Paese, inoltre, la funzione di vertice del Csm svolta dal presidente della Repubblica non esulerebbe nemmeno lui dal coinvolgimento nella polemica.
Esagerazione? No, perché stiamo parlando di uno dei magistrati più importanti, impegnato in una inchiesta delicatissima e fondamentale per la storia recente (e non solo) dell’Italia, che si vede violare l’ufficio, dentro a un Tribunale, e si trova una lettera di avvertimento che lo invita a fermarsi con l’attività di indagine. Un fatto inquietante, considerato che Scarpinato si sta occupando anche del coinvolgimento dei servizi segreti deviati nella trattativa tra Stato e mafia, con un capitolo che sembrerebbe coinvolgere la P2. L’incursione negli uffici del Tribunale di Palermo è solo l’ultimo atto di una escalation di intimidazioni indirizzate ai giudici palermitani che indagano sulla trattativa o a quelli che danno la caccia al superlatitante Matteo Messina Denaro.
Il fatto stesso che, nonostante l’allarme elevatissimo circa la sicurezza dei magistrati antimafia del capoluogo siciliano, sia possibile accedere alle stanze della Procura generale è sconcertante. Altrettanto sconcertante è sapere che solo l’ingresso principale della Procura è sottoposto a sorveglianza (l’altro è incustodito) e soprattutto che, dopo il raid subito da Scarpinato, non è stata disposta alcuna nuova misura di sicurezza. In poche parole: è chiaro che per una delle due facce del Paese, quella arrogante e tenacemente impegnata nell’insultare e nel progettare riforme che non tengano in minima considerazione il parere dei magistrati, ciò che accade a Palermo non interessa, soprattutto se riguarda la sicurezza e il lavoro di coloro i quali appartengono all’altra faccia, quella opposta.
Quindi, che Di Matteo, Del Bene, Teresi, la Principato o Scarpinato siano a rischio, che subiscano minacce o infrazioni nei propri uffici, nelle stanze di uno Stato che dovrebbe renderle inaccessibili dall’esterno, non importa. Non deve importare. Forse perché la verità che stanno cercando fa paura e, dunque, meglio se rimane lì, ostacolata dalla negligenza (voluta?) della politica o sepolta sotto le vangate di sabbia e fango delle solite, perverse convergenze. Ecco perché in Italia risulta assolutamente normale (e coerente) che si spendano ore e giorni in discorsi su responsabilità civile, riforma, ferie, e poi non ci si inquieti né si pronuncino troppe parole, di indignazione o anche soltanto di solidarietà, rispetto a quanto accaduto al Procuratore generale di Palermo.
Dai palazzi del governo, Alfano ha espresso sostegno, ma il silenzio del premier, del ministro Orlando e soprattutto di Napolitano fa veramente rumore e ribadisce che i magistrati palermitani sono soli. Almeno a livello istituzionale. Un film già visto, purtroppo, che non ci ha insegnato nulla. Ci auguriamo davvero che non sia un remake o che quantomeno il finale sia diverso.
Massimiliano Perna –il megafono.org
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