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Mondiale finito. Amen. Si gioca male, timorosi e inconsapevoli di essere una squadra di grande tradizione e tecnica e naturalmente si esce, non certo per colpa di un arbitro (che però bravo non è stato, sia chiaro). Punto. In un Paese normale ci sarebbe soltanto una delusione sportiva, che svanirebbe già due giorni dopo, in Italia no. Qui si drammatizza tutto, ci si presenta al cospetto del pubblico, che ancora si sta masturbando su commenti, colpevoli, capri espiatori (ah, quanto ci piacciono i bersagli a cui lanciare tutte le nostre freccette), e si annunciano dimissioni in massa. Non solo il tecnico, cosa peraltro prevedibile, ma anche il presidente federale. Per un attimo a qualcuno è parso che si stesse dimettendo una nazione intera, come se il calcio fosse l’unica ragione di speranza, la sola e ultima possibilità di (ri)sentirsi grandi di fronte agli altri, soprattutto al di fuori dei nostri confini. E invece non si tratta che di una semplice manifestazione sportiva, che caricare eccessivamente di peso politico è ridicolo e triste.
Prandelli lascia e, in una società disabituata alle dimissioni post fallimento, diventa un gesto nobile e signorile. Lo è certamente signorile il mister, ma è anche vero che non aveva tante altre alternative. Si è reso conto di non essere adatto a gestire una nazionale in un momento simile. Gli manca il carisma necessario. Tutto qui. In conferenza stampa ha dichiarato di aver subito attacchi mediatici pesanti che, a un certo punto, hanno rotto il giocattolo.
Quando l’ho ascoltato, ho immediatamente pensato a quanto subirono soprattutto Lippi, Buffon, Cannavaro e Del Piero, ma anche Zambrotta e Camoranesi, nel 2006, quando, durante il ritiro di Coverciano e sulle pagine dei giornali (in particolare uno), nel pieno di Calciopoli, venivano massacrati, messi in discussione, insultati per il loro essere juventini. Si chiedeva a Lippi di dimettersi e alla federazione di non permettere che questi giocatori venissero convocati. Ho pensato anche alle critiche a Materazzi, al suo modo di giocare, ai dubbi sulla sua convocazione. Bene, quegli attacchi, di gran lunga più pesanti rispetto a quelli subiti da questo gruppo e dal suo allenatore, vennero trasformati in rabbia e in agonismo straordinari, a tal punto da caricare e rendere gli “accusati” protagonisti di un mondiale strepitoso e di una vittoria che zittì tutti gli scettici, che si ammassarono per occupare gradualmente il carro del vincitore.
Sta tutto qui il problema. Altro che arbitri, caldo, viaggi e altri alibi che a trovare siamo bravissimi. Non si perde mai per colpa dell’arbitro. Nemmeno nel 2002, nell’anno della scandalosa direzione di gara di Moreno contro la Sud Corea. Fino ai tempi regolamentari almeno, avremmo dovuto prendercela soltanto con noi stessi: perché per neutralizzare le follie del fischietto sudamericano, sarebbe bastato non mangiarci un gol fatto, sull’1-0 per noi, e non subire il pareggio nel finale grazie a una doppia papera della nostra difesa. Quindi, mettiamoci il cuore in pace e non pensiamoci più.
In tutto questo marasma, però, uno spunto interessante è offerto dalle parole di Buffon, il capitano, che potrà stare antipatico a qualcuno, ma che una cosa vera l’ha detta: la vecchia guardia è andata meglio, è stata l’unica a non naufragare e a lottare. I giovani, a parte Verratti e Darmian (e un po’ anche Marchisio e Parolo), non sono pervenuti. Non hanno corso, non hanno lottato, non hanno espresso l’entusiasmo e l’ardore che ci si attenderebbe da chi è alla prima esperienza mondiale. Su questo punto, solo su questo, mi viene da pensare che forse un legame con la società italiana c’è. L’idea ossessiva della rottamazione, estesa a ogni ambito, continua a non convincermi. Avevamo bisogno di una squadra rinnovata, ne avevamo ancor di più di un Paese rinnovato, con facce nuove, entusiasmo, idee, ossigeno pulito. Ma ciò non significa banalmente sostituire le persone in base all’anagrafe. Perché una tale operazione non garantisce assolutamente risultati migliori.
Grillo ci ha provato e ci ha provato anche Renzi. Però non vedo tutte queste eccellenze in politica. Non credo che la Boschi o la Moretti, che Di Battista o Di Maio abbiano cambiato gli equilibri, le idee e le dinamiche di un Paese e di un parlamento. Non ho visto una legge elettorale migliore (anzi), continuo a sentire parlare di impunità e persino di sanatoria per gli evasori. E mi chiedo? Ma cosa è cambiato allora? Nulla. Semplicemente il consenso si è coagulato nuovamente sulle persone e i giovani in parlamento o governo, al di là delle prese di posizione di facciata di qualcuno, alla fine si allineano. Così a far notare che si sta devastando la Costituzione sono persone d’esperienza come Mineo o Casson o Chiti. Lo stesso Renzi, a parte gli annunci, qualche gesto, il sorrisetto e il “tu” dato ai giornalisti (nel frattempo però si consente, insieme a editori e sindacato stampa, che passi un accordo che devasta il giornalismo indipendente), non mi pare che abbia intrapreso una sola azione davvero rivoluzionaria, che frantumi le tante lobby, metta in riga le banche e dia respiro al popolo.
Il problema, a mio avviso, è che si è creduto, a torto, che questo Paese potesse cambiare essenzialmente per sostituzione anagrafica: per ogni vecchio rottamato, dentro un giovane più o meno sconosciuto. Si è operato questo ricambio frettolosamente e nella sola dimensione del potere, senza che ci si misurasse con le dimensioni dove era più urgente non il ricambio, ma una vera e propria liberazione. Non si è compreso (e la consueta droga del consenso, gestita con arroganza e fanatismo, difficilmente lo renderà comprensibile a breve) che questo Paese ha bisogno di aprire la strada ai talenti, alle menti attive, agli onesti e ai competenti, che abbiano venti o quaranta o cinquant’anni poco importa.
E deve iniziare non dalla sfera del potere ma dal tessuto sociale più profondo: dalle università, dalle scuole, dalla ricerca, dalla cultura, dai settori produttivi più innovativi. Ed è questione di opportunità, perché lì c’è bisogno di ricambio vero, ossia di rottamare collusi, incompetenti, compromessi, ignoranti, baroni, protetti, monopoli, parentele, autoritarismi e tutto quello che frena seriamente questa nazione.
Ecco, in questo forse, il mondiale di calcio ci ha fornito un piccolo spunto, ci ha esattamente fatto vedere quanto sia inutile e dannoso pensare che sia sufficiente mettere dentro qualcuno etichettabile come “giovane” per vincere la sfida. Ci ha fatto capire che di talenti ce ne sono ovunque e di ogni età e che esclusivamente sulle loro qualità dovrebbero essere giudicati e scelti, indipendentemente che si chiamino Totti, Toni, Rossi, Verratti e Darmian e che abbiano venti, ventotto o trentasei anni.
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