Alla vigilia del voto europeo non so chi vincerà o perderà, con quali percentuali e con quali conseguenze sugli scenari politici italiani. Quello che so è che questa campagna elettorale ormai conclusa, come del resto l’insieme del dibattito politico di questi ultimi anni, è stata caratterizzata dalla maleducazione e da scelte comunicative discutibili se non perfino squallide. Qualcuno ha usato parole forti e gravi, seriamente, senza lasciare spazio a chiavi interpretative differenti. Qualche altro, invece, talvolta le ha vomitate su un palco, mescolandole tra affermazioni convinte (al punto da ribadirle) e battute pesanti e offensive.
Chiariamo: l’obiettivo non è solo uno, ma è evidente che il più attivo con il suo linguaggio “popolare”, urlato, rabbioso, utilizzato strategicamente per raccogliere la rete della stanchezza di un popolo con l’attitudine endemica al lamento, è stato lui, Beppe Grillo. Ora, mentre qualche grillino avrà già pigiato il tasto posto sotto la propria lingua, iniziando a darmi del “servo di regime”, “prezzolato”, “disinformato”, “schiavo di padroni ladri” e così via, vorrei premettere che le mie critiche non sono animate da alcun pregiudizio o dettate da un capo.
Per due ragioni: perché non troppi anni fa alcuni ragazzi del Movimento, quando ancora era Meetup, ho avuto modo di frequentarli e collaborarci, ricevendo inviti alle loro riunioni e riconoscendo loro onestà e impegno; e perché non sono iscritto a nessun partito, né sono dipendente di un giornale con un editore “politico”, ma sono soltanto un semplice freelance. Vorrei quindi aggiungere che le mie critiche provengono esclusivamente dai miei valori e dalle mie convinzioni e si affidano a una cosa molto preziosa che si chiama libertà di pensiero, contro cui trovo assurdo agitare il vessillo della galera come fa qualcuno, rimandando a un periodo nefasto che sarebbe meglio lasciare sepolto nel loculo più lugubre della storia.
Premesso ciò e passando oltre gli insulti personali che qualcuno rivolge costantemente a chi non la pensa come i loro idoli, la maleducazione più irritante è quella dei leader, che trasformano il popolo in tifosi, poco critici e molto ideologici, pronti a scannarsi con identica violenza verbale, minimizzando la portata delle parole e semplificando i concetti e i comportamenti. Se Grillo ha fatto dei concetti duri ed estremizzati un elemento di coagulazione del consenso (cosa che già Bossi e la Lega avevano sperimentato, ma su un livello più settoriale, anche geograficamente), Berlusconi è ormai un habitué, un capitano di lungo corso.
Così, se prima aveva risparmiato il leader del Cinque Stelle, a fine campagna elettorale ha deciso di sferrare l’attacco, paragonandolo a Hitler. La risposta di Grillo è stata sarcastica: dal palco di Torino, ricordando che qualcuno aveva fatto questo paragone, ha risposto, con dedica al tg4, di essere “oltre Hitler”. Lo ha detto ridendo e giocando sul paradosso, sull’assurdità dell’accusa. Una battuta che personalmente non mi piace e che probabilmente però i giornali hanno ingigantito, prendendola troppo sul serio, ma forse se il comico genovese non avesse precedentemente strumentalizzato a scopi elettorali un testo drammatico come il “Se questo è un uomo” di Primo Levi, quella frase pronunciata per difendersi dall’accusa del Caimano avrebbe mantenuto la dimensione della boutade. Un concorso di colpe in questo caso.
Detto ciò, Berlusconi è andato oltre, continuando ad insultare Grillo (è “un assassino”, ha detto), con il quale però condivide l’antipatia e il linguaggio offensivo nei confronti del socialdemocratico tedesco Schulz e della cancelliera Merkel, divenuti bersagli anche del comico genovese, che ha donato loro epiteti poco eleganti, una caratteristica tipica del leader 5 stelle, che nei suoi discorsi ha mantenuto l’abitudine comica di chiamare gli avversari politici con soprannomi di scherno.
Ma il punto più basso è stato toccato quando Grillo ha parlato di sparizione del premier con la “lupara bianca”, utilizzando, per parlare della futura scomparsa politica di Renzi, un codice linguistico mafioso che richiama una delle pratiche più efferate, violente, tragiche della criminalità organizzata. Un modus linguistico che non dovrebbe appartenere a chi si propone come il motore del rinnovamento di un Paese nel quale le mafie hanno rappresentato e rappresentano uno dei problemi più grandi, una delle cause maggiori della crisi economica e della mancata crescita civile e morale dei cittadini.
In tutto questo, Matteo Renzi ha avuto gioco facile nel tirarsi fuori dalle logiche dell’insulto, pur ribattendo di continuo alle cadute di stile degli avversari. Stile che è mancato in verità anche al premier, qualche tempo fa, nell’ambito della sua attività di governo, quando si permise di definire, con sbrigativa arroganza, “vecchi tromboni” i costituzionalisti Rodotà e Zagrebelsky, due tra i giuristi italiani più acuti, indipendenti e illuminati, solo perché avevano osato criticare il suo progetto di riforma costituzionale, con l’abolizione dell’attuale Senato.
Il dissenso, insomma, non piace a nessuno: al di là dei risultati elettorali, delle proposte, delle idee e degli schieramenti, quello che non sembra conoscere differenze è l’allergia alla critica al potere. Una predisposizione che è funzionale a compattare le fila, a ostracizzare chi la pensa diversamente, chi non condivide i toni da stadio, gli insulti, chi vorrebbe una nazione normale nella quale discutere dei temi senza parlare di Hitler, lupare, assassini, remake di improbabili marce su Roma, terga di primi ministri europei.
Si spendono molte parole di fronte a episodi di violenza negli stadi, si parla di responsabilità, di toni da abbassare, si invitano i giocatori in campo a dare il buon esempio. Poi, quando la partita è politica, anzi quando si gioca la partita delle partite, ossia la campagna elettorale, i “giocatori” si scatenano e di buon esempio non se ne parla. Fuori i tifosi scalpitano, si eccitano, agitano le mani e intonano i cori. La violenza, ribatte qualcuno, viene arginata dalla presenza di movimenti e partiti che la incanalano in una via democratica di speranza nel cambiamento. Ma fino a quando questi contenitori saranno in grado di arginare gli istinti più accesi, se si continuerà a gettare benzina attorno alle pareti?
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