La corsa è già partita. Nemmeno il tempo di lanciare strali contro questo o quel nemico, alleato o ex alleato, ritenuto in qualche misura responsabile della fine annunciata del governo Draghi, che già è iniziata la campagna elettorale. Non potrebbe essere diversamente, visto che si voterà a settembre e che i comizi si faranno praticamente con gli elettori sdraiati in spiaggia. La crisi di governo ha prodotto profonde spaccature e cambiamenti in corsa, polverizzando patti e alleanze o facendo rinascere vecchie compagnie. Partiamo da destra. Se Forza Italia fa i conti con le uscite di diversi suoi esponenti storici, anche la Lega, al di là delle apparenze, ha accettato a denti stretti l’ennesima giravolta di Salvini, nuovamente decisivo per la fine di un governo di cui faceva parte. Un po’ una abitudine d’estate per il leader della Lega, che imbarazza non poco una parte dei suoi militanti e colleghi di partito.
L’ex ministro dell’Interno ora pregusta una nuova campagna elettorale in riva al mare, chissà, magari passando nuovamente dal Papeete, tra cocktail e balli scatenati e dichiarazioni incontrollate che faranno sudare il mediatore Giorgetti. Il centrodestra, ad ogni modo, nonostante il narcisismo dei suoi tre leader, ha trovato la quadra. Almeno sembra. Sarà premier il leader del partito che prenderà più voti. E ci sarebbe anche accordo sul numero di collegi. La Meloni è la favorita, perché i sondaggi danno in testa lei, unica in questi mesi a esser rimasta all’opposizione e decisa a giocare insieme solo a patto di essere la guida di una coalizione, che è ingombrante ma necessaria. Tuttavia, la capa di FdI sa bene che niente è facile come sembra. Bisognerà tenere a bada la variabile Berlusconi, che già pare aver espresso qualche dubbio. Inoltre, nonostante l’unità dello schieramento, la Le Pen italiana dovrà fare i conti con i problemi del suo partito. Piccolo, privo di una classe dirigente che possa gestire un eventuale successo e falcidiato dai guai giudiziari di molti militanti, dirigenti e collaboratori.
A ciò si aggiunga il rischio di pagare il prezzo di quella enorme ombra che aleggia sulla leader romana, quel peccato originale che non ha mai saputo risolvere sin dagli albori della sua lunga carriera politica: vale a dire l’incapacità di prendere convintamente le distanze dal fascismo e, ancor più, dagli orrendi gruppuscoli di estrema destra che inquinano l’ambiente politico italiano. Per non parlare poi dei legami con il sovranismo internazionale e con personaggi e posizioni che l’Europa non vede di buon occhio. Ad ogni modo, sarà la democrazia, con i suoi meccanismi, a dirci se i sondaggi hanno ragione, se la Meloni supererà gli ostacoli e guiderà uno schieramento capace di essere compatto anche dopo e se questo Paese diventerà a trazione sovranista (e molto dipenderà dal comportamento e dal peso di Forza Italia).
Passiamo al centrosinistra o più precisamente centro moderato, con un lieve spruzzo di sinistra ai margini. Qui la situazione è meno definita e semplice. Non esiste una coalizione, ma un insieme di partiti che per adesso annunciano di voler correre da soli. Il PD crede in Enrico Letta, il quale ha ribadito la rottura insanabile con i 5 Stelle e la fine prematura di quel campo largo che avrebbe dovuto garantire alleanze anche alle regionali (vedi in Sicilia, dove tutto adesso è nel caos). Letta, in una intervista televisiva alla trasmissione di Lucia Annunziata, ha parlato di “occhi della tigre”, di un PD agguerrito, deciso a giocarsela e a provare a vincere. Una citazione cinematografica (ché Gramsci e Berlinguer ormai non vanno più di moda…), un po’ grottesca se si sovrappone l’immagine compassata di Letta a quella muscolare di Sylvester Stallone nel suo Rocky. Soprattutto l’esibizione di una convinzione che stona con la volubilità di un partito che, in questi anni, ha abbandonato più volte i valori della sua base per abbracciare le convenienze elettorali e di potere.
Esemplare in tal senso è un’altra affermazione del leader dem, nella quale sottolinea che oggi il modo migliore per parlare ai giovani è attraverso il tema dell’ambiente. Concetto ribadito alla direzione PD, quando ha parlato di difesa dell’ambiente e di sostenibilità. Bello, giusto, bene. Peccato però che poi il partito rappresentato da Letta, a livello nazionale e territoriale, sia spesso a sostegno di progetti che vanno contro ambiente e sostenibilità. Dai termovalorizzatori all’appoggio delle idee di Draghi e Cingolani sul nucleare e sul ritorno al carbone per superare la crisi, rinviando ancora la transizione energetica, ogni volta utilizzando una scusa diversa. E sono solo due esempi, ma a livello locale, a partire dalla Sicilia, ci sarebbe molto altro da aggiungere sull’industrialismo del PD. Insomma, gli occhi della tigre sono una bella immagine, ma contano poco se poi nei fatti si mette in mostra il coraggio del coniglio. Che non ruggisce, ma si nasconde. In questo caso dietro posizioni che, a quanto si evince dai recenti discorsi di Letta, mirano ancora una volta a guadagnare il consenso dell’elettorato moderato, questa volta individuato nei delusi di Forza Italia, in chi ha votato per il partito di Berlusconi o per liste civiche.
Insomma, quello che conta è costringere l’elettorato a scegliere tra il rassicurante conservatorismo del PD e l’aggressivo e pauroso populismo della Meloni. Ed è già ripartita la cantilena stantia e arrogante del voto utile Alla fine dei conti, il vuoto a sinistra non interessa, né a Letta né a buona parte del suo partito. Ed è risaputo, è qualcosa che non attiene certo all’ultimo anno, ma affonda le radici già nelle prime fasi dell’esperienza del Partito Democratico e ha trovato il suo acme nel renzismo. A proposito, Renzi e Calenda dicono di esser pronti a correre da soli, con le loro percentuali misere ma fastidiose, ma almeno uno dei due (Calenda) potrebbe entrare in coalizione, insieme al gruppetto di Di Maio.
Chi cerca spazio a sinistra invece sembra essere il Movimento 5 Stelle, liberato, con la prima scissione, dall’ala destrorsa di Di Maio, e con Conte pronto a candidarsi e a raccogliere il consenso di chi non trova riferimenti a sinistra (dove Sinistra Italiana e Articolo 1 hanno percentuali inconsistenti e sembrano destinati a entrare in coalizione con il PD) o di chi ha appoggiato la sua scelta di difendere alcuni valori come salario minimo e transizione energetica. L’ex premier, infatti, si fa forte di aver detto no a Draghi per una questione di principio e non di poltrone o rimpasti (come hanno fatto FI e Lega), anche se, nel gioco della comunicazione politica, è stato additato da stampa ed ex alleati come il vero responsabile della crisi. La verità è che Conte ha fatto una scelta innanzitutto di sopravvivenza politica. Perché restare dentro un governo guidato da un premier che non ascolta, non risponde e va in direzione opposta su temi ritenuti fondamentali, avrebbe significato morire e sparire.
Scegliere di non votare e difendere quei temi fino alla fine, gli farà perdere qualche consenso sul breve termine, ma gli permetterà di provare ad aprire un nuovo fronte progressista, magari con l’appoggio di quanti non guardano con favore al PD e alla sua linea conservatrice, ancora affezionata all’esperienza con Draghi. Una scelta rischiosa, forse dettata dal coraggio o forse dalla necessità, ma di sicuro potenzialmente capace di attrarre chi non si riconosce negli altri schieramenti che si stanno delineando. Solo che per riuscirci non bastano certo i temi, seppur importanti, del salario minimo e dell’ambiente, ma serve un cambiamento di direzione chiaro. Sui migranti, per fare un esempio, quel che rimane del Movimento 5 Stelle dovrà mostrare idee e programmi opposti a quelli crudeli e destrorsi dell’era Di Maio, con l’attacco alle ong e l’appoggio alle politiche di Minniti.
Inoltre, per Conte e il suo movimento c’è un altro grosso problema: la presenza di Beppe Grillo, che di progressista non ha nulla e che continua ad avere un peso rilevante tra i 5 Stelle. Chissà che l’ex premier non riesca anche nell’impresa di liberare il movimento da tutto ciò. Non sarà facile. Per riuscirci avrà certamente bisogno di mostrare il coraggio della tigre e non solo gli occhi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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