Chiudere la porta. Un gesto facile da compiere, ci fa sentire sicuri. Fuori dalla porta restano tutte le paure e gli incubi, le ansie, le responsabilità e i sensi di colpa. Dentro le nostre case restiamo noi con le nostre certezze e le nostre sicurezze. Perché mai mettere in discussione il nostro vivere quotidiano, condividere quello che con tanta fatica abbiamo costruito, messo da parte? Perché mai dare ad altri la stessa possibilità di sognare e costruire un futuro? Abbiamo molto di cui chiedere scusa a chi è nato nella parte sbagliata del mondo: per secoli abbiamo fatto i padroni nelle terre che non sono nostre, abbiamo portato via la loro ricchezza, la loro storia, la loro cultura. Abbiamo sfruttato e colonizzato, abbiamo contribuito a creare governi e guerre, ma lo abbiamo chiamato progresso…anzi, civiltà.
Civiltà, una parola della quale ci si appropria troppe volte, spesso per assegnarle un significato che giustifichi i propri comportamenti, ma gli uomini amano credere alle proprie bugie. Poi arriva il giorno in cui le scelte accumulate nel tempo chiedono il conto, chiedono l’assunzione delle proprie responsabilità. Quel giorno, questa società sbagliata, profondamente disuguale e ipocrita, mostra tutto il suo fallimento e la sua fragilità, e sa solo chiudere la porta. Succede in gran parte del mondo, succede nei paesi più ricchi e considerati modelli di democrazia in base a criteri astratti e discutibili, succede anche dove si pensa che non poteva succedere.
In Danimarca, il Parlamento approva una legge che impedisce l’arrivo dei migranti le cui richieste di asilo saranno gestite, d’ora in avanti, da centri di accoglienza situati in “paesi terzi”. In quelle sedi sarà valutato chi potrà essere accolto e chi, invece, dovrà essere espulso. Questo succede con un governo socialdemocratico guidato da Mette Frederiksen, e la Danimarca diventa così il primo Paese europeo a stabilire per legge una politica di esternalizzazione delle frontiere allo scopo di bloccare il flusso dei migranti. Sappiamo tutti come funzionano i centri di accoglienza, i CPR presenti sul territorio italiano mostrano ogni giorno il clima di violenza e disumanità che si instaura in quei lager di Stato dove i diritti umani non hanno cittadinanza.
La legge approvata in Danimarca a larghissima maggioranza pone però una domanda nuova: quali saranno gli Stati terzi dove la sorte dei migranti verrà discussa e decisa? Non è dato saperlo, anche se alcune indiscrezioni filtrano dai media danesi, che fanno alcuni nomi: Ruanda, Egitto, Eritrea. Non è la prima volta che la Danimarca mostra il volto peggiore della sua idea di “accoglienza” e di “umana solidarietà”: per esempio, è stato il primo paese europeo a dichiarare “sicura” l’area di Damasco e a consentire, per legge, il sequestro degli oggetti di valore dei richiedenti asilo. Leggi dure e surreali, che violano palesemente i diritti dell’uomo e che riportano alla mente un passato mai davvero sconfitto. Ma la Danimarca non è il solo Paese che ha deciso di chiudere la porta.
Era l’estate del 2015 e decine di migliaia di migranti sbarcavano sulle coste di Grecia e Italia dal Medio Oriente: l’Europa stabilì che 160mila migranti dovevano essere accolti fra tutti i Paesi della comunità, ma molti Paesi fecero finta di non capire e di non vedere, estranei alla questione. Fra questi Paesi i più indifferenti furono, fin dal primo momento, i Paesi dell’Est europeo e, da allora, proprio quei Paesi hanno ulteriormente inasprito la loro ostilità nei confronti dei migranti: Ungheria, Bulgaria e Slovenia hanno costruito muri e recinzioni, contrari, ostili ad ogni forma di redistribuzione dei richiedenti asilo.
C’è un vento, razzista e xenofobo, che da molto tempo soffia sull’Europa e sull’Italia stessa. Triste e amaro che popoli e Paesi che nella loro storia hanno conosciuto e vissuto sulla loro pelle la discriminazione e la migrazione siano, oggi, su posizioni ostili e razziste. Le cose vanno chiamate con il loro nome, senza ipocriti giri di parole: l’ostilità verso i migranti ha radici profonde, cresciute accanto a un’idea che si chiama razzismo. Noi italiani dovremmo conoscerla bene questa ostilità: abbiamo varcato l’Oceano sulle navi che portavano in America, abbiamo riempito i treni con le valigie legate con lo spago per afferrare la vita e, per afferrarla, abbiamo subito umiliazioni e ingiustizie. Eppure, molti di noi hanno dimenticato in fretta, al punto che abbiamo a nostra volta restituito anche a noi stessi le umiliazioni subite: le abbiamo rese a chi dal sud dell’Italia saliva al nord per entrare nelle grandi fabbriche.
Quelle fabbriche avevano bisogno di quelle braccia ma, una volta finito il turno, per molte di quelle braccia diventava difficile aprire una porta di casa di fronte ad un cartello che recitava “non si affitta ai meridionali”. Molti di noi hanno dimenticato anche questo. Il razzismo abita anche a casa nostra, non nascondiamoci dietro un dito. Se da una parte esiste uno slancio di umana e solidale convivenza verso i migranti, dall’altra parte esiste una consistente fetta del popolo italiano che non solo condivide idee xenofobe ma appoggia totalmente l’idea del respingimento di chi attraversa il Mediterraneo e di chi cammina per chilometri sui sentieri che attraverso le Alpi portano ai valichi di frontiera. Esiste anche nei confronti dei figli di seconda, terza generazione, di chi è in Italia da tempo. Il suicidio di un ragazzo di vent’anni, Seid Visin, è solo l’ultima pagina di un racconto che troppi italiani fingono di non vedere.
La sua lettera è un atto di accusa che dovrebbe farci capire tante cose: è vero, è una lettera scritta molto tempo prima del suo suicidio, ma questo non ci assolve. In quelle righe c’è tutto il senso della ferita che segna chiunque senta sulla sua pelle il rifiuto altrui. La storia di Seid ha un finale diverso rispetto alle tante vittime del razzismo in Italia solo perché il sipario sulla sua vita l’ha calato materialmente con le proprie mani, ma quelle mani sono state guidate verso quel gesto, un po’ ogni giorno. Seid aveva solo vent’anni, sulla sua storia tutti hanno sentito il bisogno di dire la propria opinione. Anche il leader di quell’Italia rozza e xenofoba che ogni giorno, da anni, getta fango e menzogne sui migranti alimentando odio razzista: Matteo Salvini, che ha fatto della sua guerra personale contro i “terroni italiani” di ieri e contro i “migranti invasori” di oggi la sua bandiera.
In questa stagione umana e politica, l’ostilità e il fastidio verso chi consideriamo diverso da noi sono diventati un elemento quotidiano del nostro vivere, come una corazza che ci tiene prigionieri e di cui non riusciamo a liberarci. Sullo sfondo resta il senso dell’incapacità a cogliere il senso del vivere e della condivisone, e allora preferiamo chiudere la porta davanti a quello che non conosciamo o non vogliamo conoscere, preferiamo raccontare a noi stessi che non abbiamo bisogno degli altri soprattutto se gli altri non parlano la nostra lingua, se non hanno le nostre abitudini e, soprattutto, se hanno la pelle di un colore diverso dal bianco. Preferiamo continuare a vivere in un mondo dove gli ultimi, quelli in fondo alla fila, sono sempre più ultimi.
Paulo Coelho affermava che “…di solito, l’ultima chiave del mazzo è quella che apre la porta”.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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