In questo clima di ingombrante tranquillità, nel quale le urgenze che venivano rinfacciate a Conte oggi sembrano non contare più, con le proteste scomparse dai radar dei media e la crisi economica meno presente nelle prime pagine, a tenere banco è il PD, con il suo ennesimo terremoto. La passione di Zingaretti, che con le sue dimissioni parte all’attacco delle correnti avverse, Bettini che propone l’uscita dal PD e la creazione di un nuovo soggetto politico, le sardine che curiosamente corrono in soccorso del leader dei dem, con una occupazione formale e una operazione politica grottesca. Ci voleva il PD, insomma, per ravvivare un momento paludoso, nel quale tutto sembrava tragicamente immobile. Peccato che questa vivacità non sia dovuta a proposte politiche, lotte per i diritti, soluzioni per accelerare su piano vaccinale e sui ristori che ancora non arrivano, ma sia solo l’ennesima resa dei conti tra fazioni che giocano a scaricarsi addosso responsabilità comuni.

Con l’intrusione, in aggiunta, di un gruppetto di movimentisti desiderosi di tornare in campo, decidendo nelle proprie chat, senza alcun confronto interno (che hanno svolto a posteriori), di fare la stampella alla corrente di un partito, in deroga alla tanto pubblicizzata indipendenza. Naturalmente, ammantando tutto di parole e ipotesi romantiche, con la presuntuosa auto-assegnazione del ruolo di salvatori del centrosinistra intero, che però sembra essere identificato solo con la corrente zingarettiana del PD. In tutto questo caos, mentre il Paese reale è alle prese con il rischio di una nuova ondata e di nuove chiusure, si ha l’impressione che ci sia poco spazio per l’analisi politica e per gli effetti sugli scenari futuri. Davanti alla guerra intestina del PD, c’è chi incensa con parole dolci il segretario dimissionario, descrivendolo come un grande leader, lodandone le grandi capacità politiche che hanno riportato il PD a governare con Conte, a risalire nelle percentuali e a costruire un dialogo positivo con i 5 stelle. Punto. È come se la valutazione del segretario, da più parti ritenuto certamente espressione migliore rispetto all’area moderata o filorenziana del PD (con Bonaccini in testa), si fermasse a novembre o a dicembre.

Peccato che intanto il tempo sia andato avanti, con una crisi di governo innescata da un Renzi che nessuno ha avuto il coraggio di sfidare e neutralizzare, invece di farsi trascinare dentro un tranello senza uscita. Peccato che nessuno, compreso Zingaretti, abbia avuto il coraggio di limitarsi a un appoggio esterno a un governo, quello Draghi, figlio di una operazione di sistema e prodotto di una ammucchiata indecente. Ci sarebbe da chiedersi dov’era Zingaretti quando il PD accettava di entrare nell’esecutivo, con pochi ministri (tutti maschi peraltro) e insieme alla Lega e a Berlusconi. Dov’era quando Salvini, piano piano, metteva Molteni all’Interno, Borgonzoni alla Cultura, chiedeva e otteneva la testa del commissario Arcuri, minacciava di intervenire sul Viminale per la gestione degli sbarchi e del rapporto con le ong. Perché ci sono risultati che derivano da scelte precise e le scelte di un partito le fa o le approva il segretario, il quale non si è certo dimesso perché contrario a certe scelte, ma perché sfiancato dalle guerre interne per le poltrone, con il suo partito che è tornato a scendere nei sondaggi.

Il punto è che, come sempre, alla faccia della lotta al leaderismo che in tanti si sono intestati nel passato, la discussione continua a vertere sempre e solo su un leader. Si organizzano pseudo-occupazioni per sostenere un leader, si invita il leader a uscire dal partito per costruire un’altra realtà più ampia e inclusiva. Il leader, che è educato e per bene, poco importa se pieno di errori e privo di carisma politico, espressione di un pezzo di centrosinistra che ha accettato di tutto in questi anni e non ha avuto il coraggio di riconoscere ciò che ha sbagliato. Bastano tre parole: Minniti, Sblocca Italia, Jobs Act. Vale a dire: diritti umani e immigrazione, ambiente, lavoro. Tre punti sui quali il PD ha agito calpestando i valori propri della sensibilità della sinistra. Ha sostenuto e ancora sostiene e difende la strategia di Minniti; ha sostenuto progetti industrialisti che ancora oggi minacciano l’ambiente di interi territori; ha partorito una riforma del lavoro che ha abbattuto le tutele per molti lavoratori (e non parliamo solo di articolo 18), aumentando la precarietà e non introducendo ammortizzatori sociali sufficienti. Tutto peraltro perfettamente in linea con quella vocazione sempre più neoliberista che il PD mostra sin dalla sua nascita.

Si è scelto di parlare più alle imprese e meno (o per niente) ai lavoratori. Basta consultare un po’ di sana letteratura di questi anni, libri e inchieste che raccontano come il mondo del lavoro si sia rivoltato a una sinistra e a un PD che lo ha abbandonato e persino indebolito. E Zingaretti dov’era? Quando mai ha pronunciato il suo no a certe scelte del suo partito? Ma il punto centrale non è nemmeno questo. Il punto centrale è che non è questione di leader ma di idee, di scelte di campo, di credibilità. Il Partito Democratico ha tanti militanti perbene, gente che ha voglia di sinistra, ma che ossessivamente si ostina a credere nella vitalità di un progetto nato male e destinato a implodere definitivamente. Il peccato originale del PD è di aver messo dentro, sin dalla nascita, il virus che lo avrebbe consumato. Ci sono visioni opposte che si coagulano solo nel sostegno a quei gruppi di interesse e di sistema che ti permettono, in questo Paese, di puntare a un governo. Ci sono costanti compromessi al ribasso su queste visioni, c’è una flessibilità sui valori che negli anni ha permesso l’inserimento di personaggi che con la storia e le idee della sinistra non c’entrano nulla.

E non ci si riferisce alla cosiddetta sinistra ideologica o politicamente più marginale, ma a quell’area progressista che nel Paese vive lontano dalla politica, che ha difficoltà a scegliere ogni volta che c’è da andare alle urne, che sarebbe pronta a seguire chi, senza alcuna remora o mediazione, tiene fede a certi valori inalienabili. Per questo oggi è ridicolo e sbagliato pensare di ricostruire partendo da ciò che è vecchio, non anagraficamente ma come visione politica, lontano dalle idee di rinnovamento del Paese sul piano della sostenibilità ambientale, della tutela dei diritti, del riconoscimento del lavoro. L’unica possibilità di futuro è che il PD muoia e venga lasciato morire in pace. Perché è il solo modo per liberare dalla prigione del compromesso tutti quei militanti onesti che fanno esperienza di sinistra ogni giorno e che soffrono per anni a causa di scelte inaccettabili da tanti punti di vista.

Il nuovo ha bisogno di nuovo, per rinascere e liberarsi del peso di un passato stracolmo di errori. Ma per capirlo bisogna essere sinceri e onesti, avere a cuore davvero i valori che in questi ultimi anni sono riusciti a emergere in alcune piazze, e non svenderli per un gioco politico o per concretizzare la speranza di una copertura politica che ti garantisca un futuro. Non basta una tenda, per ripararsi da una frana.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org