Epilessia. Una parola, la conclusione di una perizia, l’ennesima beffa dentro una estenuante montagna russa che gira vorticosamente da sette anni. Stefano Cucchi, secondo i consulenti-medici incaricati dal gip di Roma, potrebbe essere morto per epilessia, anche se non vi sono certezze assolute. Due ipotesi: una è questa, l’altra è la frattura della vertebra sacrale. Per i consulenti medici, però, l’epilessia sembrerebbe quella più plausibile, certamente più delle lesioni presenti sul corpo di Stefano. Allora, se questa ipotesi venisse creduta dal giudice, provocando l’ennesimo conato di impunità, potremmo dire con certezza che tutti noi siamo dei potenziali Stefano Cucchi. E siamo tutti epilettici. Tutti inesorabilmente a rischio di morire così.

Un’epilessia insolitamente letale, ma soprattutto terribile e violenta. Non è la malattia che siamo abituati a immaginare o a vedere. No. È violenza pura che devasta la faccia, la schiena, il corpo. Un’epilessia che pesta, picchia, calcia, calpesta. Si può morire così. In Italia come in Egitto. Dentro a una galera come dentro a una caserma. O per strada. L’epilessia, a quanto pare, è divenuta la forma più diffusa di morte violenta, insieme alla depressione. Quest’ultima però preferisce attaccare quei ragazzi che, all’improvviso, pur senza alcuna motivazione, si suicidano dentro una caserma. Entrambe le patologie hanno una caratteristica comune: si manifestano in forma così insolita e violenta solo quando di mezzo ci sono corpi militari o forze dell’ordine. In questo caso sono difficili da curare e combattere, perché godono di una cortina di protezione e omertà, depistaggi e silenzi gommosi.

L’Italia è un Paese insano. Stefano è morto di epilessia, secondo i periti. E, a giudicare dai sintomi e dai segni, sono morti dello stesso male anche Giuseppe Uva e Riccardo Magherini. E tanti altri, compreso Federico Aldrovandi, che fu raggiunto dalla malattia una notte di settembre, casualmente davanti a un gruppetto di “tutori dell’ordine” che lo “videro” morire. Siamo dunque una nazione nella quale è scoppiata un’epidemia, ma non negli ultimi anni, bensì da decenni. Una forma strana di epilessia colpiva già i ribelli o i manifestanti, che d’improvviso cadevano a terra con le teste bucate e sanguinanti.

Carlo Giuliani soffriva di questa malattia. Così come Roberto Franceschi e tanti altri caduti allo stesso modo negli anni delle contestazioni. Giovani innocenti e sognatori, finiti senza una ragione. Per quella che, ora ce lo hanno spiegato i periti romani, non era violenza, aggressione, omicidio, ma solamente una fottuta malattia. Per quanti anni, in Italia, abbiamo perso tempo a chiedere giustizia per qualcosa che invece aveva una ragione medica! Per quanti anni abbiamo compreso male, abbiamo frainteso, abbiamo scambiato per un’ingiustizia commessa da uomini in divisa quella che in realtà era solo una malattia! Dovremmo ringraziarli questi periti, anche perché magari adesso anche l’Egitto potrà trovare una causa esterna riguardo alla morte di Giulio Regeni. Niente torture, niente pestaggi, solo una patologia.

Così come sono casi patologici quelli di Emanuele Scieri e Tony Drago, militari morti in caserma. A Pisa e a Roma. In questo caso non per epilessia, ma per depressione. Suicidati. Erano depressi, anche se non risulta da nessun comportamento, dai loro sogni, progetti, dalla loro tenacia, dalle loro ultime parole o telefonate, dalla loro inossidabile voglia di vivere. Evidentemente la depressione dentro le caserme ha modi e tempi diversi, si manifesta in poche ore e porta subito al gesto estremo. Per Emanuele ci sono voluti anni solo per stabilire che sia stato ucciso, anche se i suoi assassini rimangono ignoti. Per Tony siamo ancora all’inizio, alla fase in cui si sta cercando di dimostrare che il suicidio sia un’ipotesi poco plausibile, per non dire fantasiosa. Un’altra dura battaglia per la verità.

Purtroppo è questa l’Italia. Siamo il luogo nel quale viene esposta una scritta che recita che “la giustizia è uguale per tutti”, ma nel quale i familiari delle vittime devono combattere anni solo per sperare che si possa provare almeno a cercarla quella verità e quella giustizia. Se poi nel ruolo di imputato o presunto carnefice ci si trovano uomini in divisa, allora ci vogliono tanta forza e speranza, perché l’impunità diventa un mostro quasi imbattibile. E bisogna resistere e spendere energie anche per difendere la memoria della vittima dai mille oltraggi, dalle intimidazioni, dalle parole violente di esponenti istituzionali e sindacali che hanno letame al posto del cuore.

Loro di epilessia o depressione non muoiono, ne sono immuni. Noi, invece, dobbiamo sperare di non ammalarci, perché nessuno potrebbe curarci, nessuno risarcirebbe i nostri familiari per la nostra “malattia” letale né tantomeno per le prese in giro, gli oltraggi, i depistaggi e quella maledetta ingiustizia che sarebbero costretti a respirare ogni giorno dentro questo Paese crudele e omertoso.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org