“Ho fatto tanti lavori: dal pastore all’operaio in molte fabbriche, nelle fonderie, sempre con contratto. Quest’anno, dal nord, ho scelto di venire a Cassibile. Mi hanno assunto a marzo per due mesi, ma dopo tre giorni ho avuto un problema con la schiena e i caporali mi hanno detto che non potevo lavorare più. Nonostante il contratto sono stato lasciato a casa. Ma non ho ricevuto alcuna lettera di licenziamento, né una comunicazione scritta. Ho scoperto che al posto mio va un altro che ha la mia età e fisicamente mi somiglia. Lavora con il mio contratto, che risulta ancora attivo, e a mio nome. L’azienda non ha detto nulla, tanto nessuno controlla. Solo che così io non posso essere assunto regolarmente da nessun’altra parte”. Questa è solo una delle decine e decine di testimonianze raccolte a Cassibile in questi ultimi 17 anni. Era il 2019. Moussa, maliano di 55 anni, in Italia da 25, mi raccontò questa vicenda surreale in fondo a una traversa di Cassibile. Andammo lì di proposito, lontano dal campo.
Mi aveva avvicinato tramite un altro lavoratore straniero, Lamine, gambiano 35enne che avevo conosciuto qualche anno prima e che a Cassibile viene da sette anni. “Un mio amico – mi disse sottovoce – ti vorrebbe parlare. Ha bisogno di denunciare una cosa. Ma non qui all’accampamento. Ha paura che i subcaporali sentano”. Già, i subcaporali, quelli che si attaccano ai lavoratori stagionali giorno e notte. In realtà sono caporali anche loro, ma di un livello meno potente. Di loro parleremo meglio in uno specifico capitolo. Torniamo a Moussa. Aveva lo sguardo buono e placido ma si vedeva che era arrabbiato, di una rabbia stanca, mista a rassegnazione. Scuoteva la testa, mentre il vento intorno agitava le erbacce alte del tratto di campagna che avevamo scelto per parlare tranquilli. Insieme a noi era venuto anche Lamine. Che in un momento di silenzio, aggiunse: “Le aziende fingono di non sapere. Molte affidano le paghe ai caporali, sapendo benissimo che poi questi tratterranno una percentuale dei soldi. Oggi buona parte delle imprese ci fanno i contratti. Ma sono fasulli. Sia perché poi lavoriamo più ore e più giorni che non ci vengono conteggiati, sia perché ci fregano spesso anche sulla paga prevista”.
“Molti, infatti, – continua Lamine – ormai ci pagano con accredito su carta bancaria o postale, di solito una prepagata. I cedolini però ce li danno molto tempo dopo, così quando andiamo a controllare giorni lavorati e paga, ci accorgiamo quasi sempre che abbiamo preso meno di quanto ci spetterebbe”. Un meccanismo diabolico. Come quello che nel passato si serviva delle chiamate anonime che qualcuno faceva alle forze di polizia il venerdì sera o il sabato mattina, in modo da togliersi di mezzo quelli che sarebbero andati a ritirare la paga, in quel caso in nero e in contanti. Lamine è uno di quelli che nel suo Paese, per anni segnato dalla dittatura di Jammeh, ha combattuto per i propri diritti. Ci siamo conosciuti proprio in mezzo al fango delle campagne, che nei pomeriggi di pioggia diventava una fredda palude. Ha vissuto tanti momenti a Cassibile, compresa la “migrazione” dai terreni del celebre “Hotel Sudan” a quello del Marchese, di fronte all’antico borgo, dove fino allo scorso anno si sono accampati i lavoratori.
Ė uno dei tanti braccianti con i quali ho stretto amicizia, creando un legame di fiducia. Lui mi ha fatto incontrare altri lavoratori stanchi di subire. Fu lui a convincere due ragazzi a fidarsi e a denunciare al sindacato. Che io avvisai, dando appuntamento un pomeriggio in città. Loro c’erano, il sindacato no. “Siamo impegnati con un direttivo, puoi chiedere se possiamo fare nei prossimi giorni?”. Lasciamo perdere. Purtroppo, in questa provincia, chi fa sindacato non si rende conto spesso della realtà. Come quando, due anni fa, alcuni si sono recati a Cassibile, portando beni di prima necessità e aiuti, e parlando ai ragazzi, riuniti nel campo, dei loro diritti. Chiesero anche se qualcuno volesse denunciare, dimostrandosi disponibili. Erano certamente animati da buona volontà ma non capivano una cosa molto banale. Lamine c’era. Lascio a lui la spiegazione, piuttosto ovvia: “Nessuno parla in gruppo, davanti a tutti, perché hanno paura. Ci sono le spie, i subcaporali in mezzo a noi”. Inutile aggiungere altro.
“Ho lavorato in molte campagne d’Italia – mi disse Lamine parlandomi delle condizioni di lavoro a Cassibile – e ho visto posti davvero infernali, compreso Nardò. A Cassibile ci lavoro dal 2014 per la stagione delle patate. La situazione qui è molto difficile, perché non esistono servizi. Non ci sono case in affitto, né campi attrezzati. Dormiamo in mezzo alle campagne e abbiamo problemi enormi, non solo per mangiare o curarci, ma soprattutto per tutelarci. Abbiamo problemi sindacali. Qui molti vorrebbero denunciare, ma non abbiamo nessuno che ci aiuti a farlo senza rischiare di essere puniti dai caporali”.
Le aziende, secondo lui, sono in gran parte complici: “I contratti li fanno, ma molto spesso sono fasulli. Molti pagano meno di quanto scrivono in busta. Oppure dai soldi che ci spettano tolgono la ‘commissione’ per i caporali, ai quali dobbiamo pagare anche il trasporto. I caporali sono quasi tutti nordafricani o sudanesi, poi come detto ci sono quelli che stanno in mezzo a noi nel campo. Sfruttatori e sfruttati insieme. I caporali scelgono chi deve lavorare e se protesti ti minacciano e picchiano. O non ti fanno lavorare più. Due anni fa, ad esempio, ho chiesto il rispetto della pausa pranzo, specialmente quando faceva troppo caldo. Dal giorno dopo non ho lavorato più. Anche se avevo il contratto. Mi hanno detto che parlo troppo e che conosco bene i miei diritti. Sono un problema per loro”. Per Lamine il lavoro in campagna ha conosciuto anche momenti drammatici: “Nel 2015 ero a Nardò, a meno di cento metri da un sudanese (Mohammed Abdullah, 47 anni) che si è sentito male ed è morto. Non lo dimenticherò mai”.
Lamine chiede soluzioni. Due mesi fa mi ha telefonato da Campobello di Mazara. “Max, anche quest’anno a Cassibile sarà la stessa cosa vero? Niente soluzioni, solo parole?”. “Sì, fratello, parole a vuoto e tentativi inutili. E la gente del posto sempre incazzata con voi”. Ho sentito il suo silenzio e immaginato la sua faccia dall’altra parte del telefono. La sua espressione profonda. Dopo qualche secondo, mi ha risposto così: “Non capisco perché ce l’abbiano con noi. E non capisco nemmeno perché non si vogliano far le cose. Ci vuole un posto sicuro dove poter dormire e lavarci, ma soprattutto un ufficio che faccia incontrare legalmente aziende e braccianti, assicurando assunzioni regolari. Mi pare che in Italia ci sia l’ispettorato del lavoro. Bene allora dovrebbe controllare le aziende, mentre le aziende dovrebbero provvedere ai trasporti. Solo in questo modo i caporali verranno eliminati e noi potremo lavorare in pace e con dignità”.
Già, questione di capacità e soprattutto di volontà politica. Ma anche di legalità e dignità, un elemento sconosciuto a molte imprese della zona. Ricordo che nel 2004, quando iniziai a occuparmi di agricoltura e caporalato, partendo dalla provincia di Siracusa, gli allora rappresentanti delle organizzazioni datoriali agricole negavano tutto. Alla domanda sul caporalato escludevano che ve ne fosse. Soprattutto nella zona del siracusano. Solo uno disse che magari qualcosa nelle piccole aziende c’era, ma poca roba, più che altro sommerso, ma non caporalato e comunque non tra le aziende della zona e men che meno tra le associate della sua organizzazione. “Lo escludo categoricamente”, tuonò. Un altro mi rise quasi in faccia, con un ghigno storto che non ho mai dimenticato e che mi spinse a indagare sempre di più. L’anno scorso, una rappresentante di categoria, una imprenditrice, finalmente non solo non negò un fenomeno che danneggia le aziende pulite, ma aggiunse con chiarezza, rivolgendosi ad altri rappresentanti di categoria presenti: “Se non ci fossero gli immigrati noi saremmo rovinati, le patate rimarrebbero a terra e avremmo un danno di migliaia di euro”.
Proprio così. L’economia della zona sarebbe al collasso, perché pochi italiani accetterebbero questo lavoro. Mohammed, un bracciante di 45 anni, in Italia dal 2007, lo ribadì in una intervista fatta per Propaganda Live, lo scorso anno, seduto su una poltroncina lisa davanti a una delle baracche di lamiera e fango: “I giovani italiani non lo vogliono fare questo lavoro, per questo le aziende cercano noi. Io consiglio ai giovani italiani di studiare, così da poter fare un altro mestiere. Perché questo è troppo pesante, è terribile”. A far capire bene cosa significa lavorare, sfruttati, in campagna, è anche Issa, ventenne senegalese, incontrato nel 2015 tra le baracche e i panni stesi dell’Hotel Sudan. “Lavoro in nero – mi raccontò – dalle 7 del mattino alle 14.30. Raccolgo le patate, un lavoro pesantissimo. Mi pagano 45 euro, 5 dei quali li devo dare per il trasporto all’autista che ci porta al lavoro (siamo circa sedici persone in un furgoncino), il resto lo tengo io”. Un lavoro saltuario, legato alle decisioni incontestabili dei caporali: “Non lavoriamo ogni giorno – aggiunse -. Ci sono i caporali marocchini che decidono quando lavori. Poi devi comprarti da mangiare, perché loro non ti danno niente, e anche scarponi, guanti e tutto quello che serve per lavorare”. Era il 2015 e sono le stesse cose che mi vengono raccontate oggi.
Solo che in quell’occasione, per la prima volta dopo anni, quasi nessuno aveva voglia di parlare. Erano stanchi e sfiduciati. Non volevano giornalisti, perché in tanti erano stati intervistati in giro per l’Italia e poi si erano visti stravolgere le loro parole, strumentalizzate, usate in negativo, magari fotografati o ripresi di nascosto. Solo la mia frequentazione assidua e quasi quotidiana del campo, i tè bevuti insieme e la buona parola di quelli che venivano da anni e che mi conoscevano, fece sì che qualcuno accettasse di parlare. Come Alì, sudanese di 43 anni, alto, robusto e dai modi gentili. “Sono cittadino italiano. Vivo qui da 13 anni e ho moglie e figli a Roma. Lavoravo come autista, poi l’azienda è fallita e adesso eccomi qui. Le condizioni sono pessime, non lavoro sempre e non ho contratto. Quando lavoro prendo 40 euro e 5 li do per il trasporto. Qui siamo praticamente tutti regolari, molti di noi sono in Italia da anni. Ne ho viste e sentite tante, ma non cambia nulla. Si continua a parlar male dei migranti, lo fanno i giornali, la politica, come se noi fossimo colpevoli di qualcosa. Noi che viviamo e lavoriamo in condizioni assurde. A Cassibile la situazione è sempre la stessa. Ci siamo organizzati per rendere più vivibile questo luogo, ma certo non siamo contenti di stare così. Da anni mi capita di parlare con i giornalisti, di essere intervistato, ma a che serve se poi le cose rimangono sempre uguali?”.
Come dare torto alle parole di Alì? Quante responsabilità ci sono su queste situazioni? Non solo politiche, che sono scontate, ma anche della nostra categoria, quella giornalistica. Quante volte il ripetersi di una condizione disumana viene considerata notizia? Qualcuno ti dice che ormai se n’è parlato tanto, troppo. Altri non fanno il proprio dovere fino in fondo: raccontano magari la vicenda umana, puntando sulle emozioni, ma sulle responsabilità non approfondiscono più di tanto. Poi ci sono i disonesti, quelli che usano la miseria alla quale vengono obbligati i braccianti, per parlare di degrado, come se ne fossero colpevoli loro, e magari dare contemporaneo spazio a capipopolo, cittadini farneticanti o che istigano alla violenza. Ancora qualche giorno fa, mi è capitato di leggere i rigurgiti acidi e irritanti di qualche residente che si oppone al costruendo campo di accoglienza. Mi è capitato di leggere le parole di qualcuno che dice che gli abitanti ora dovranno “controllare” (quasi fossero giustizieri) non solo gli accampamenti spontanei ma anche il “centro” che ospiterebbe 60 braccianti o le parole ignobili e razziste di chi parla di sicurezza e afferma che bisognerà tenere in casa le figlie (sulla base di quali dati o notizie parlano?).
Tutto questo grazie anche alla codardia dei veri responsabili, quelli che hanno venduto fumo e poi si sono ritrovati impantanati nelle proprie incapacità, naturalmente scaricando le responsabilità su altri, con arroganza. Ne dicono e ne diranno tante su Cassibile. Già hanno iniziato. Con parole vuote e promesse roboanti, da un lato, e parole meschine e razziste dall’altro. Pochi ascolteranno le parole dei braccianti. Nessuno punterà il dito sulle responsabilità. E questa ennesima stagione scorrerà come sempre, tra ingiustizie, solitudini e sfruttamento. Nella speranza che il fuoco sul quale alcuni stanno buttando benzina quotidianamente non diventi incendio. Sono decine e decine i testimoni di Cassibile che ho conosciuto in questi anni. Non solo braccianti. Uno è anche un sacerdote, un amico, padre Carlo, un uomo che da solo, ogni giorno, si è occupato di rendere meno difficile la vita degli ultimi, lottando con loro e per loro.
Voglio chiudere questo capitolo con le parole che lui mi disse lo scorso anno. “Questi esseri umani sono visti come forza lavoro, muscoli che servono per la raccolta dei frutti della terra. Per le autorità civili, politiche, ecclesiastiche, militari e così via, sono degli invisibili. Se qualche autorità ha a che fare con loro è soltanto per intimorirli, farli sentire in difetto riguardo alla legge italiana, nonostante la stragrande maggioranza non sia in difetto e chi è in difetto lo è solo per colpa della burocrazia. Spero non si ripeta la solita tragica farsa, come un incendio o uno sgombero da parte dei carabinieri a lavori finiti. Troppe volte, infatti, accade questa cosa: si dà un bel calcio nel sedere ai lavoratori e li si manda via, devono scomparire. Non servono più. In attesa della prossima annata”.
Ci vediamo lunedì 15 febbraio alle ore 19.30 con il sesto capitolo. A presto.
MP
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