Da quando il fenomeno dei lavoratori stagionali stranieri a Cassibile è diventato argomento degno di attenzione, sono passati circa vent’anni. Sicuramente diciassette, per quello che posso testimoniare direttamente. In tutti questi anni, quello che emerge da Cassibile è il racconto di una ingiustizia visibile, facilmente rintracciabile e di certo punibile, ma che magicamente non è mai riuscito a trovare giustizia. Fatta eccezione per l’arresto di qualche caporale o per la denuncia di qualche migrante affamato o assetato, infatti, per anni quasi nessuno ha torto un capello a chi i caporali li paga, li cerca, li chiama per ottenere braccia a buon mercato, braccia da sfruttare, fregandosene dei loro diritti o di dove dormano e vivano i lavoratori, una volta usciti dal luogo di lavoro. Quasi nessuno ha torto un capello, a livello giudiziario, a chi usa contratti solo sul piano formale, a chi ordina orari di lavoro diversi da quelli previsti dal contratto, a chi decurta le paghe, a chi nella Postepay del lavoratore accredita meno soldi di quelli che risultano in busta, adducendo scuse varie. Solo negli ultimi anni, la procura, per fortuna rinnovata rispetto a quella che operava in precedenza, ha fatto scattare delle inchieste importanti contro le aziende in materia di sfruttamento del lavoro e rispetto delle regole.
Nel 2015 e nel 2017, grazie a indagini coordinate dall’allora procuratore della Repubblica di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, e dirette dal sostituto procuratore Tommaso Pagano, in due operazioni sono stati colpiti per la prima volta i “colletti bianchi“, ossia gli imprenditori. I risultati delle due inchieste dimostravano quanto già da tempo era noto: sfruttamento del lavoro nero, con paghe inadeguate e senza alcun diritto riconosciuto; condizioni igieniche precarie e di scarsa sicurezza per i lavoratori, privi di dispositivi, mascherine, guanti e a stretto contatto con prodotti chimici, dei quali si è riscontrato un uso e uno stoccaggio irregolare. E ancora, la videosorveglianza abusiva nei confronti dei lavoratori, l’impiego del caporale come guardiano, come campiere, dentro i posti di lavoro. Entrambe le operazioni sono state condotte dalla Guardia di Finanza. Cosa questa che mi apparve piuttosto strana, visto che la competenza territoriale a Cassibile è dei Carabinieri. Forse non è una stranezza, almeno stando a quanto mi fu rivelato nel 2015 da una fonte diretta, verificata e autorevole.
Secondo questa fonte, il motivo era da ricercare nel fatto che i Carabinieri, fino a quel momento (ed evidentemente anche fino al 2017), non avevano dimostrato di essere particolarmente attivi, affidabili e capaci nel promuovere indagini su aziende e caporali. Questa rivelazione autorevole mi tornò molto utile, per diverse ragioni. Innanzitutto, perché mi permise di capire come mai le due operazioni, con risultati tangibili, vennero eseguite dalla Gdf e non dalle forze dell’ordine territorialmente competenti. In secondo luogo, confermò tutte le mie perplessità sul modus operandi dei Carabinieri di Cassibile nel passato. In realtà non erano solo mie le perplessità. Perché in tanti, ad esempio, si sono chiesti a lungo come fosse possibile che il “mercato degli schiavi” o l’appuntamento con i caporali potessero avvenire alla luce del sole, al mattino, nella via centrale del borgo, senza che nessuno fosse mai intervenuto a spezzare le catene visibili dello sfruttamento. Cosa che avviene tuttora, peraltro.
Sia chiaro, ciascuno fa il proprio mestiere e prova a farlo sicuramente nel migliore dei modi, soprattutto quando bisogna obbedire a delle leggi fatte da altri. La legge, però, dovrebbe cercare sempre di fare rima con giustizia. Ci sono casi, in particolare, in cui la legge non dovrebbe prescindere nemmeno dal buon senso, se non vuole trasformarsi in qualcosa di sbagliato e disumano. Facciamo qualche esempio. Nel passato, l’intervento della legge a Cassibile consisteva essenzialmente nell’essere zelanti e rigidi nei confronti dei braccianti. Quando le cifre ci parlavano di una maggior presenza di migranti irregolari, i controlli erano dedicati principalmente a loro e comportavano decreti di espulsione, fogli di via rilasciati ai migranti, che poi rimanevano sul territorio, esattamente come prima, sfruttati allo stesso modo e in condizioni identiche. Ne ho incontrati tanti, andando in mezzo alle campagne, a qualsiasi orario, non solo a Cassibile ma anche nella vicina Fontane Bianche, nei campi, nei casolari o negli stabilimenti balneari chiusi per l’inverno. Cercavano riparo ovunque. Soli, tra giornate di lavoro massacranti e un riposo in tuguri di fortuna che di riposante non avevano nulla, se non il buio della notte, quando il nemico da combattere era solo l’umidità.
Di giorno, invece, i nemici erano tanti altri: i caporali, il lavoro senza diritti e tutele, le paghe non corrisposte, gli insulti, le minacce, gli sguardi torvi o i pestaggi di alcuni balordi di Cassibile. E purtroppo nemiche erano anche le divise. I carabinieri, che rispondevano alla legge dello Stato senza però andare oltre. Senza chiedersi se i colpevoli fossero altri, verso i quali agire con più determinazione. E dire che di poliziotti e carabinieri capaci di farlo ne ho conosciuti. Li ho visti chiudere un occhio, li ho visti chiedere ai migranti se avessero bisogno di aiuto. E prodigarsi per dar loro una mano, in qualche modo. A Cassibile, fino a qualche tempo fa, la legge era però principalmente quella che pressava costantemente le vittime. Raccoglieva qualsiasi segnalazione, qualsiasi denuncia contro di loro. Legittimo, per carità, intervenire, ma poi bisognerebbe valutare bene le situazioni specifiche. Perché ci sono storie di ingiustizia che fanno male. Un migrante denunciato per aver preso delle patate in un campo. Per fame. Ripeto: fame. Arrestato e finito a processo per questo. Ci sono ragazzi denunciati e finiti davanti a un giudice per aver preso l’acqua, necessaria a lavarsi e cucinare, da una trivella comunale. Una trivella pubblica. Un controsenso.
Una trivella vicina al terreno nel quale sorgevano dei casolari e delle baracche in cui, fino a due anni fa, dimoravano i lavoratori stranieri stagionali. In quella zona, lontana dal centro abitato, vi erano un paio di casolari abbandonati, ormai da tempo chiamati “Hotel Sudan“. Un nome che era nato anni prima, quando quei casolari erano stati occupati da braccianti stranieri sudanesi. Un lungo viale sterrato, dentro una campagna distante da tutto e praticamente sotto la bretella autostradale. Ci sono stato tante volte. Ho visto la stanchezza dei braccianti, ho conosciuto la loro accoglienza, i loro sorrisi, il rispetto reciproco e anche la loro rabbia. Soprattutto ho ammirato il senso di comunità dei lavoratori. Erano stati capaci di organizzare un dopolavoro, avevano ricavato uno stanzone con tavoli e avevano improvvisato un bar. Alcuni di loro, invece di andare nei campi, avevano “investito” in acqua, bibite, caffè e tè. I lavoratori la sera si fermavano lì, bevevano un buonissimo tè alla menta, giocavano a carte, commentavano le notizie, ascoltavano un po’ di musica. Ciascuno contribuiva come poteva e così si comprava anche la roba da mangiare per tutti. Se qualcuno non poteva contribuire, non faceva nulla, un piatto c’era per chiunque.
A dare una mano c’era anche il buon cuore di un prete siracusano, padre Carlo D’Antoni, che raccoglieva e donava cibo, coperte, vettovaglie, aiutato anche da una ong tedesca, dai fedeli, da singoli cittadini. Si cenava insieme, sotto la luce prodotta da un generatore. Anche chi era vegetariano come me poteva assaggiare un piatto di riso e salsa, senza carne. Era un modo per stare insieme e non vivere solo la fatica del lavoro e il dolore dell’ingiustizia. Tuttavia era sempre un luogo nel quale si sentiva forte quell’ingiustizia di una condizione di non diritto, una condizione di svantaggio non meritata. Ma ne parleremo più avanti. Quel posto oggi non esiste più, perché due anni fa, a fine agosto, quando ormai la raccolta era finita, i Carabinieri, dopo una attività di controllo e a seguito della denuncia del proprietario del terreno, hanno disposto l’abbattimento delle baracche che, in quel momento, ospitavano 7 lavoratori, tutti migranti regolari. Lo sgombero era stato preannunciato il giorno prima all’assessorato alle politiche sociali del Comune di Siracusa, in quanto si parlava della possibile presenza di minori senza specificare, come disse l’allora assessore Furnari, che si trattava di una baracca legata al lavoro stagionale. Così l’assessorato inviò in loco una assistente sociale.
Il Comune, informato dal comando provinciale, aveva collaborato mandando a supporto anche i mezzi necessari allo sgombero e alla ripulitura della zona. Di minori, naturalmente, nemmeno l’ombra (ed era scontato, visto che in tanti anni che mi reco nei campi e tra le baracche di Cassibile forse ho incontrato una sola volta due ragazzi di quasi 18 anni). Le 7 persone, tutte adulte, sono rimaste così senza un tetto e senza un posto in cui andare, mentre alla telecamera di qualche tv locale, un graduato dell’Arma spiegava l’importanza dell’operazione. Ricordo che mi chiesi subito come mai il proprietario dei terreni, un signore della zona montana di Siracusa, dopo tanti anni avesse deciso di denunciare. Perché mai, un signore che non aveva mai vissuto con fastidio l’occupazione del proprio terreno, comprendendo la situazione di difficoltà dei braccianti, d’improvviso aveva cambiato idea? Indagando, venni a sapere da una fonte ben informata che questo signore aveva paura. Aveva confidato di essere stato avvertito da qualcuno che, se non avesse fatto denuncia, sarebbe stato complice di eventuali reati commessi dai migranti che vivevano e dormivano nella loro campagna.
Una paura illogica, perché nessuno può essere complice di reati non commessi. Eppure chi aveva suscitato questa paura, di fronte a un uomo placido, era stato efficace. Nei mesi precedenti, inoltre, di concerto con l’allora prefetto Castaldo, i Carabinieri avevano visitato una baraccopoli riscontrando la regolarità dei documenti dei braccianti, i quali però poi venivano denunciati per “invasione di terreni”, forse la denuncia più comune a carico di stranieri a Cassibile. La prassi. Un atto dovuto, dicono. Al di là di questi episodi, però, a quello stesso periodo risalgono anche i primi controlli dei Carabinieri sulle aziende di Cassibile. Lo avevano fatto i militari del NIL (Nucleo Ispettorato del Lavoro) di Siracusa, insieme a quelli della stazione di Cassibile. Avevano trovato irregolarità soprattutto sul mancato rispetto della durata dei turni di lavoro e sul profilo del lavoro nero. Avevano anche comminato sanzioni per 25mila euro. Finalmente, dopo le due operazioni della Gdf, anche i Carabinieri si facevano sentire. Qualcosa forse era cambiato.
Anche l’anno scorso, rispetto al passato, c’è stato un atteggiamento più comprensivo. La gestione, da parte dell’Arma, della tensione che si è creata a Cassibile, è stata orientata al buon senso e alla tutela dell’incolumità dei migranti, soprattutto nei momenti di agitazione di una parte della popolazione, come dopo l’episodio del ragazzo con problemi psichici che camminava nudo nel quartiere. In quell’occasione, a metà luglio scorso, la folla attorno alla baraccopoli, nella quale ormai vi erano pochi migranti, vista la “coincidenza” con la fine della raccolta, chiese lo sgombero. Che il Sindaco di Siracusa, Francesco Italia, promise entro fine mese. E, in effetti, così fu. La baraccopoli ormai vuota venne abbattuta. Il pretesto dell’uomo nudo, perfettamente coincidente con la fine della stagione di raccolta, aveva funzionato. Adesso che non servivano più, bisognava fare in modo che nemmeno uno restasse in zona. La legge è legge, soprattutto quando conviene. E anche la politica, d’altra parte, ha le sue leggi.
Ci vediamo giovedì 11 febbraio alle ore 21 con il quinto capitolo. A presto.
MP
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