Uno dei processi più interessanti della nostra psicologia è quello che consente di superare un trauma parlandone. Rievocandolo e affrontandolo, infatti, il problema sembra più piccolo o, da un altro punto di vista, fa meno paura. La criminalità organizzata vive del terrore che sa incutere nelle persone. L’estorsione, il pizzo, la minaccia, l’omertà imposta sono tutti elementi della medesima strategia del terrore che, nostro malgrado, abbiamo imparato a conoscere.

Un tempo si parlava dell’omertà siciliana, come fosse una caratteristica etnica, poi si è scoperto che in realtà è qualcosa che non conosce collocazioni geografiche precise. Guardate ad esempio cosa succede oggi a Ostia o a Roma, con le vedette per strada e le persone comuni che dicono, genericamente, che “non è mai successo niente”, “mai avuto problemi”, oppure “non conosco nessuno”. Anche lì il programma mafioso è il medesimo. incutere terrore per poter agire indisturbati.

È facile pensare che il terrore abbia lo scopo principale di controllare la popolazione direttamente. In realtà, la vera paura è della criminalità organizzata nel mostrarsi, semplicemente, per quello che è, ovvero una gigantesca fuffa. Raccontarli o deriderli (come faceva ad esempio Peppino Impastato) non solo ne può minare direttamente la struttura e l’organizzazione rivelandone interessi e affari, ma ne disinnesca anche la capacità intimidatoria. Ne smonta l’epica che si sono autocreati come sovrastruttura.

Attenzione, ciò non significa sottovalutarli, quello mai. Si tratta, in modo più sottile, di comprendere che sono vulnerabili, come qualsiasi organizzazione, che ci sono persone molto furbe o intelligenti ma anche e soprattutto persone molto stupide, che vivono tutte insieme in un mondo ridicolo fatto di gelosie, tradimenti, pettegolezzi. Come dappertutto e in ogni società umana. La mafia ha quasi sempre colpito chi parlava, chi raccontava una verità diversa. E questa verità, come per esempio nel caso di Peppino Impastato che prendeva per il naso i boss, è opposta a quella artificiale che era funzionale al racconto di un’epica che in realtà non esiste. Il luogo comune della mafia che dà lavoro, che mantiene il controllo e garantisce “ordine”, della mafia bonaria che fa i suoi affari fuori e a casa sua non permette che qualcuno disturbi sono tutte gigantesche minchiate.

Il bello del racconto, del mettere in mostra, è far comprendere a tutti che la mafia certamente è anche il Savastano trasfigurato in carcere, il personaggio della nota serie “Gomorra”, che si arrabbia con il figlio, che è indulgente con altri, che ha problemi con la moglie. La mafia è anche il Totò Riina ignorante de “La mafia uccide solo d’estate”. Ma la mafia è anche quella dei veleni della terra dei fuochi e del cappio all’economia di ogni città, tutte cose che non possono essere solo colpa del fantomatico Stato. I mafiosi non sono cavalieri senza macchia di una battaglia sbagliata. E non sono neppure entità astratte ma persone in carne ed ossa, con famiglie, interessi, lavori.

Parlare serve a contestualizzare, a dare un nome e un volto a chi si rende protagonista di crimini atroci. Anche per questo la mafia prova ad intimidire o a mettere a tacere i giornalisti che possono accedere a un pubblico vasto. Non è un caso che la strategia mafiosa, se non può colpire direttamente mira a screditare. E non è un caso che, per esempio, El Chapo Guzman abbia incontrato Sean Penn. In quell’occasione il racconto voleva essere indirizzato e piegato al volere del potente, ovvero El Chapo stesso. Era un racconto funzionale alla causa. A far capire il potere di queste persone, perpetrandone l’epico racconto.

Questo è il peggio che possa accadere. Il rischio che si corre in questo periodo sfrenato di serie tv è quello di edulcorare questi personaggi, trasformandoli in modelli ed eroi. Il ruolo di chi racconta non dovrebbe mai prescindere dalla condanna ferma delle azioni e dei personaggi.

PennaBianca -ilmegafono.org