Di solito non amo scrivere recensioni dei libri che leggo, nemmeno quando mi piacciono molto o gli autori sono miei amici o persone che stimo. Questa volta, però, è il caso di fare un’eccezione, perché il libro in questione merita di essere conosciuto, pubblicizzato, comprato e soprattutto letto. “Non dirmi che hai paura” (Feltrinelli, 2014), di Giuseppe Catozzella, è un inno all’umanità dentro una storia drammaticamente vera, un urlo di verità e rabbia, dolore e vita, che ti scuote dentro, ti appassiona e ti colpisce allo stomaco. Duecentoventinove pagine che scorrono rapide, sospinte dal vento di uno stile narrativo mai retorico, nemmeno quando deve descrivere le emozioni e le sensazioni più forti, intense, positive e negative, terribili, tragiche.
Scorre veloce come il passo della piccola Samia, che dalle strade polverose di Mogadiscio sogna di arrivare alle Olimpiadi e sfidare i suoi miti. Una sfida che non è solo sportiva, ma è piena della fierezza di una ragazza che vuole riscattare il proprio paese, stravolto dalla guerra, e vincere per esso e per le meravigliose donne che lo popolano. Una corsa che è una liberazione. Corre Samia, con le sue scarpe consumate, con quella suola che sente tutto quello che calpesta. Si allena, sospinta dal vento pieno dell’amore della sua famiglia, della sorella, del padre che la coccola e la sostiene in quel sogno che appare utopia. Il vento che solleva la polvere e imbianca tutto, compresa l’amicizia con un altro bambino, che ha un po’ il volto della sua nazione, che non riesce a proteggerti del tutto dalla follia del terrore, dalla violenza becera degli integralisti.
Una storia di sacrificio, di sogno e di lotta, di ostinazione illuminata solo dalla luna delle notti di fatica che sanno di tartan e di sudore, di ribellione e di prato, un prato che ristora e accarezza mentre il respiro e i muscoli si riposano. Una storia africana come quelle che accomunano migliaia e migliaia di persone, donne e uomini, bambini, ragazzi, adulti che pretendono uno spazio per vivere e non solo per sopravvivere, alla ricerca di una normalità possibile. Anche nel mezzo di un inferno le cui fiamme vengono alimentate dall’odio stolto delle fazioni, delle divisioni etniche, dell’estremizzazione religiosa, elementi di un abominio che ti entra in casa, anche quando non ne sei partecipe e vorresti continuare a svolgere la tua vita all’insegna del lavoro e dell’amore, del rispetto e della pace.
Una storia che, come sempre accade, a un certo punto prevede la partenza, il viaggio lungo le rotte dannate nelle quali disperazione e speranza si mischiano e si impastano con la sabbia del Sahara, bruciano sotto il sole, dentro un cassone che traballa su quattro ruote, tra la puzza di vomito, urina e merda, cercando di non arrendersi, chiudendo gli occhi per sfamarsi e dissetarsi aggrappandosi a un sogno. Una vicenda straordinaria e beffarda, quella di Samia Yusuf Omar, che alle Olimpiadi ci è arrivata davvero, nel 2008, a soli diciassette anni, con la divisa bianca e azzurrina al cui centro campeggiava il nome della Somalia, per difenderne i colori e l’onore nei 200 metri, guardando da vicino il suo idolo, il connazionale Mo Farah, che quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Londra, trionferà.
Ma questo Samia non lo saprà mai. Perché il suo viaggio è terminato, nel 2012, nel mare Mediterraneo, annaspando tra le onde, nella speranza di vincere l’ultima corsa, quella verso le funi di una imbarcazione italiana affiancata al barcone in avaria sulla quale la campionessa somala si trovava. A un passo dall’Italia, da Lampedusa, dalla sua meta. L’abbraccio mortale delle onde si è portato via gli applausi di Pechino, la folla che si alzava a incitare, nonostante fosse rimasta indietro, quella giovane atleta, testarda e meravigliosa, arrivata lì senza un allenatore e un’alimentazione adeguata. Il mondo questa storia l’ha conosciuta all’improvviso. Quello stesso mondo che si era accorta appena di lei, in quel tartan di Pechino, mentre giungeva al traguardo.
Giuseppe Catozzella l’ha raccontata, con l’aiuto della sorella di Samia, l’amata Hodan, che l’ha preceduta nel viaggio e che per fortuna è riuscita ad arrivare a destinazione, trasferendosi a Helsinki, dove oggi vive e dove ha messo al mondo una bimba che somiglia tanto a Samia e che ha scelto anche lei di correre. Un libro che va letto e che bisognerebbe far leggere nelle scuole (in aggiunta, suggerirei anche “Il mio nome è giustizia”, di Paul Kenyon, Piemme editore) o trasformare in spettacolo teatrale, in film, per fare in modo che tutti possano conoscere questa storia.
Perché l’Italia ha bisogno di libri di questo genere, per capire o smettere di ignorare l’umanità che vive dentro le storie di questi esseri umani in fuga. Bisognerebbe avere il coraggio di immedesimarsi, davvero, dentro le situazioni descritte, il viaggio, le condizioni estreme, la violenza dei trafficanti, le carceri libiche, i barconi che ansimano dentro il mare. Solo così si potrebbe cercare di immaginare quello che i migranti subiscono e comprendere il perché siano disposti a fare questo viaggio, capire quanto sia ridotta la possibilità di scegliere altre soluzioni.
C’è la vita in ballo, c’è il diritto a vivere e salvarsi dall’inferno. E noi non abbiamo nessun diritto di rimandarglieli in quell’inferno. Perché Samia non è un caso raro. Forse è il più eclatante, ma dietro di lei c’è un’umanità immensa e altrettanto coraggiosa che si sposta, parte e sogna di correre, un giorno, sul rettilineo di un’esistenza libera, per allungare il passo e tagliare il proprio traguardo. Ricominciando, finalmente, a vivere.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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