Provate a contare, lentamente, da uno a diecimila. Ci metterete un po’, sforzerete la vostra concentrazione per evitare di sbagliare e ricominciare da principio. Vi sembrerà un’eternità e non è detto che alla fine non decidiate di rinunciare a questa inutile perdita di tempo. Da uno a diecimila. Snocciolando cifra per cifra ciascun numero. Per delle persone normali questo sarebbe solo un gioco, senza alcuna conseguenza se non un po’ di noia o, al contrario, la soddisfazione di essere arrivati fino alla fine. Per altri, invece, “da uno a diecimila” è un suono: leggero, apparentemente scocciante, ma in realtà intimamente piacevole. Il fruscio di banconote oppure il rapido scatto di un click, di pochi tasti che danno l’input ad una carta magnetica. Pagare. Come “conseguenza” del potere. Pagare in un attimo, per un capriccio, per un desiderio facile e immediato da realizzare.

Il potere. Pochi istanti e quei diecimila sono già contati. Senza alcuna stanchezza. Una cena aziendale per mantenere rapporti utili, un orologio di valore, un portaborse, l’acconto di una mazzetta per comprare qualcuno, poco importa che si tratti di una escort capace di soddisfare gli istinti putridi di un Trimalcione sessuomane o che si tratti di un funzionario, di un testimone, di un parlamentare, di un elettore: da uno a diecimila, in pochi secondi e senza alcuna fatica. Quanto è palesemente vario il mondo, perfino dinnanzi all’immutabilità noiosa dei numeri. Vario e crudele, diseguale, perfido. Di una perfidia che mostra i suoi denti appuntiti sulla carne della dignità di chi, lontano da tutto, dai giochi di concentrazione così come dai vizi di potere, non ha nemmeno la forza di iniziare a contare, di pronunciare quell’uno che sarebbe almeno un inizio.

Da uno a diecimila, in questo caso, non c’è niente. Il vuoto, una voragine impietosa dentro cui si agitano le ombre dell’angoscia, il senso della sconfitta, dell’umiliazione, l’ululato tetro dell’usura legalizzata, la puzza del denaro che passa sopra la vita delle famiglie, il loro diritto, non dico alla felicità, ma quantomeno alla normalità. La normalità di un uomo di 64 anni che si aggrappa alla speranza di non perdere tutto, quel tutto che ha il profilo di una casa, la sua casa, dove vive con la sua famiglia. Cosa ne sanno le banche di cosa sia una casa? Nel senso vero della parola. Non un immobile nel centro di una grande metropoli, con quattro o cinque piani, sportelli freddi, uffici freddi, dirigenti cinici. Non il palazzo di pregio storico acquisito per trasformarlo in una scatola di potere finanziario.

Parliamo della casa, fatta di famiglia, figli, progetti, feste comandate, cene, momenti di vita quotidiana che costruiscono ricordi, felicità, ma anche sofferenze condivise, attimi in cui ci si stringe tutti insieme per superare le difficoltà. Nel Paese della retorica cattolica sul concetto di famiglia, si consente che diecimila euro di debito siano insormontabili per una famiglia vera, che divengano un conto impossibile da iniziare. La casa che si perde dentro quei numeri, finisce all’asta, svenduta a un nuovo acquirente (ogni tanto l’uomo dovrebbe smettere di somigliare ad uno sciacallo). E arriva lo sfratto, a ricordarti che hai perso. Non hai nessuno, non sei nessuno. Sei una chiocciola a cui hanno tolto il guscio e ti ritrovi nudo. Hai solo una cosa che non possono mai toglierti, niente a cui possono affibbiare interessi usurari o indirizzare ingiunzioni: la tua dignità. Quella che ti spinge a non arrenderti, a resistere fino all’ultimo secondo. Fino a quando non accade che, nel momento peggiore il tuo cervello cede alla disperazione e alla resa.

Allora quel debito da 10mila euro diventa benzina che piove sul fuoco di quella sofferenza, trasformandosi in incendio della speranza e della vita. Il signor Giovanni, 64enne di Vittoria (Rg) non ha retto più, ha deciso di mettere le fiamme tra sé e l’ingiustizia che lo stava consumando. Ora è ricoverato in un reparto per grandi ustionati insieme ad un agente di polizia che ha provato a spegnere la brace della sua resa. La moglie, che ha cercato anch’essa di fermare quel fuoco rimanendone travolta, si trova in gravi condizioni, ma senza un posto disponibile negli ospedali maggiori di Catania e Palermo, dotati di reparti specializzati che potrebbero aiutarla a curarsi in maniera adeguata. Soli. Dimenticati ancora una volta. Perché negli ospedali i posti ce li hai se il tuo cognome conta, se il tuo portafoglio pesa. In quel caso, i letti e le stanze spunterebbero come per magia.

L’Italia, la terra della casta e dei castigati. La prima comanda, ride, può tutto e anche di più. I secondi soccombono. Abbandonati alle vite quotidiane di città e paesi che sono miscugli di isole, separate le une dalle altre, rinchiuse nel privato delle loro mura, a masticare gli avanzi di una crisi che ancora non è del tutto visibile all’esterno, se non nel momento in cui esplode il caso, quello che riesce a far notizia. Le strade sono piene di individui sull’orlo di una crisi di nervi, sul punto di sfogare su sé stessi e sugli altri la propria angoscia e frustrazione. E i responsabili ci sono. Tutti identificabili. C’è un’oligarchia politica che vive appollaiata sul trespolo di una vile e bassa forma di avanspettacolo, con i soliti copioni, le litigiosità di sempre, i non temi che diventano priorità. Giustizia, presunte persecuzioni, manifestazioni indecenti, razzismi consueti, richiami e minacce di ritornare al voto.

Questo è lo spettacolo che sono riusciti ad offrire fino ad ora. E la sensazione è che presto sapranno far peggio. Con conseguenze che in molti non riescono nemmeno a immaginare. Terribili e incontrollabili. Perché l’emarginazione e la solitudine di un popolo vessato e incendiato da una fiamma sospinta dal vento robusto della disuguaglianza sono le armi puntate sul futuro di questo Paese, solitario e non solidale perché non ha mai avuto un popolo e mai, probabilmente, lo avrà. Nemmeno se dovesse riuscire a invadere le piazze, unito quantomeno nella rivendicazione e nella stanchezza. Perché bisognerebbe comunque trovare il coraggio e la forza di tornare per strada, insieme, guardandosi negli occhi e occupando il suolo pubblico, prendendosi per mano. Da uno a diecimila. Magari anche molti di più.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org