È morto all’età di 77 anni Antonino Calderone, lo storico pentito catanese che, al termine degli anni ‘80, per la prima volta, svelò alla magistratura e all’intero Paese la struttura interna della mafia catanese, i suoi affari, e i nomi degli esponenti più importanti. Viveva da anni in una località anonima. Una storia, quella di Calderone, raccolta e raccontata dal sociologo ed esperto di mafia Pino Arlacchi nel libro Gli uomini del disonore, uscito nel 1992 e poi ripubblicato tre anni fa. È la storia di Cosa nostra a Catania, un resoconto di quanto accaduto in quasi cinquant’anni di vita e di criminalità: la nascita della prima famiglia mafiosa alle pendici dell’Etna, il suo sviluppo grazie ai rapporti solidali con grandi imprenditori e poi, infine, la prima lotta interna contro i Santapaola.
Ricordare la figura di Antonino Calderone, dunque, significa ricordarsi di uno dei collaboratori di giustizia più importanti, poiché proprio grazie alle sue parole è stato possibile scoprire le fattezze della mafia catanese e siciliana. Ma procediamo con ordine. Antonino Calderone, come detto, è stato uno degli esponenti più importanti della famiglia di Catania nel dopoguerra. Questa famiglia, come espresso anche nel libro di Arlacchi, si è formata soltanto nel 1925 e inizialmente si è contraddistinta perché contraria all’uso eccessivo della violenza e alle attività “sporche” quali la prostituzione. Nonostante ciò, essa affidava gran parte dei propri interessi ai grandi imprenditori, molto vicini alla mafia (se non addirittura veri e propri collaboratori), rifiutando invece di imporre il “pizzo” ai commercianti. Insomma, si trattava di una mafia diversa da quella attuale.
La situazione, però, cambia alla fine degli anni ’70, quando a Catania le famiglie incominciano ad evolversi, così coma l’economia della città stessa. In quegli anni, infatti, che emergono i Santapaola (e successivamente anche i Ferlito), decisamente più violenti e dediti ad un tipo di criminalità che si ispira a quella dei corleonesi guidati da Totò Riina. Insomma, nel giro di qualche anno, i Santapaola, più numerosi e spietati, riescono a far fuori gli ormai pochi restanti esponenti dei Calderone, giungendo persino ad uccidere “Pippo” Calderone, il fratello del collaboratore di giustizia. È proprio in questo periodo che lo stesso Antonino decide di emigrare, di allontanarsi dalla Sicilia. La situazione è cambiata: se fino a poco tempo prima Catania sembrava completamente immune ad ogni infiltrazione mafiosa (la giustizia italiana non seppe dell’esistenza di famiglie mafiose in città sino all’82), adesso il capoluogo etneo appariva completamente sotto il controllo di un clan potentissimo e decisamente più cruento.
Antonino Calderone scappa quindi in Francia, ma poco dopo viene arrestato. Comincia allora una nuova vita per l’ex mafioso catanese. Nel giro di qualche anno decide di collaborare con la giustizia, affidandosi anche all’intelligenza e all’esperienza del grande Giovanni Falcone, e svela fatti e intrecci che soltanto gli uomini che vivono dentro Cosa nostra possono conoscere. Siamo ormai a metà degli anni ’80 e il maxi-processo è alle porte: si tratta di un momento decisivo per la giustizia italiana e, se si pensa che parte di tutto ciò sia stato possibile anche grazie all’apporto di collaboratori di giustizia come Calderone, si comprende quanto sia risultata di vitale importanza questa sorta di redenzione (quello di Calderone venne considerato un sincero pentimento). Una redenzione che ha però un prezzo da pagare: quello di dover scomparire per sempre, andare via lontano ed iniziare una nuova vita, sotto una nuova identità.
Perché Antonino Calderone ha capito tutto e l’ha fatto in tempo. È riuscito a comprendere che la criminalità organizzata è una via da evitare, da non intraprendere e per questo ha deciso di allontanarsene. E proprio tra le pagine del libro di Arlacchi è possibile leggere con quanta rabbia sincera e sdegno sia avvenuto questo processo di distacco. Un esempio toccante lo si può leggere proprio alla fine, dove lo stesso rivolge un monito ai suoi figli e agli uomini ancora appartenenti a Cosa nostra: “Non fate come fanno Nitto Santapaola, i corleonesi e tutti gli altri. Nitto ha tre figli maschi e li ha indirizzati verso la strada della mafia. Oppure, se volete continuare la vostra vita, se proprio non siete capaci di uscire dalla pozzanghera in cui sguazzate, evitate perlomeno di farli sposare tra di loro, i vostri figli. Fategli conoscere persone diverse, normali, spingeteli verso la società degli uomini evoluti”. E poi conclude con una “frecciatina” memorabile: “Siete voi gli uomini del disonore”.
Giovambattista Dato -ilmegafono.org
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