Alla fine è uscito qualche giorno fa. L’ultimo, purtroppo, album di Francesco Guccini. Partorito, pensato e registrato su a Pavana, accanto al Limentra. Su in montagna, come ci ha tenuto sempre a precisare, in barba ai ragionamenti altimetrici buoni solo per i sussidiari. Come ricorda il titolo “L’ultima thule”. Un addio vero, e scende una lacrima all’idea del testamento musicale. Non faccia scongiuri il Maestro, non si vuol portar jella a chi ti ha ispirato, scrollato, commosso. Eppure tutto questo cd è pervaso di un saluto, di accenni, di chiusura, un saluto alla fine del concerto. Il Maestro è stanco di suonare e forse anche di gente che, come chi scrive, gli ha messo addosso troppi aggettivi che lui lascia scivolare sulle acque del Limentra. Perché al sedicesimo album uno se ne è sentite dire tante e l’Avvelenata è un pezzo che non ci suona al concerto.

Si scivola in una stanza riscaldata dalla stufa, quelle in ghisa, buone da cuocerci sopra la zuppa e il brodo. È notte, come da tradizione è Canzone di notte n.4. Tre voci, padre, madre e Guccini discutono per il figlio che non vuol spegnere “la lusge”. La luce si spegne ma l’animo del poeta guarda fuor di finestra e ascolta: “Ehi notte che improvvisa sei discesa ferina e silenziosa come il lupo e non permetti difesa né resa e tutti avvolgi in un mantello cupo…il fiume muglia sempre laggiù in fondo e nel silenzio bevi la sua voce…”. Memorie di gioventù e di paese che a uno con pochi capelli bianchi arrivano da un altro tempo in cui si incontrano nonni ventenni e nonne affascinanti.

L’ultima volta ci saluta di nuovo con la sua malinconia, ma lascia spazio a Su in collina, bella memoria partigiana, sporcata di neve e dialettismi a ricordare ancora, per un’ultima volta, una pagina di storia che non si deve far coprire dalla polvere. Così come Quel giorno d’aprile, con un bimbo che aspetta il padre tornare dalla guerra in Russia, che ci regala dei versi meravigliosi “E l’Italia è una donna che balla sui tetti di Roma nell’amara dolcezza dei film dove canta la vita ed un papa si affaccia e accarezza i bambini e la luna, mentre l’anima dorme davanti a una scatola vuota”. Il testamento di un pagliaccio ha quel sound che hanno talvolta le poesie caserecce e buone del Guccio.

Meraviglioso ancora una volta questo riprendere il topos del matto/pagliaccio in cui in tanti ancora, per fortuna, saprebbero riconoscersi “Di cosa muore? Muore intossicato da sogni vani di democrazia, rifiuta i compromessi alla bugia. Muor contento? No, da disperato. Ma cosa importa, è giunto fino in fondo alla sua saga triste e divertente a una vita ridicola e insipiente; lui muore, infine, e noi restiamo al mondo”. Alla sesta traccia troviamo ancora il periodo preferito e più cantato dal Pavanese. Tante emozioni, tanti scatti in foto bianche e nere ma un’unica certezza “Con la coerenza potrai difenderle dalla vergogna, o dare ragione a uno sbaglio, strapparti di dosso il guinzaglio; o forse le cancellerai, forse le canterai”.

E in questo album non poteva mancare un saluto cantato a Gli Artisti, personaggi convinti di essere particolari. La riflessione finale si cala sull’immagine del Maestro: “Perché anche una vita infelice si illumina con la fantasia. Io semplice essere umano, costretto a costretti ideali, sono solo un umìle artigiano e volo con piccole ali. Fabbrico sedie e canzoni, erbaggi amari, cicoria, o un grappolo di illusioni che svaniscono dalla memoria, e non restano nella memoria”.

Sull’ultimo punto non sono d’accordo soprattutto se passiamo a L’ultima thule, che restituisce speranza e grinta, un risarcimento poetico e musicale all’addio: “Ma ancora farò vela e partirò io da solo, e anche se sfinito, la prua indirizzo verso l’infinito che prima o poi, lo so, raggiungerò”. Un bel saluto, amaro, fatto di ricordi, breve nelle sue otto tracce. Grazie per i due pacchetti al giorno, per il fiasco, per la camicia larga, per il jeans, per il barbour, per la barba, per la compagnia nelle notti d’università.

Penna Bianca –ilmegafono.org