Ancora un duro colpo inferto dalla magistratura italiana  ai clan di Cosa Nostra. Nel giro di pochi giorni, infatti, il Tribunale di Trapani ha dato il via ad una confisca di beni per un valore complessivo di 45 milioni di euro, mentre quello di Messina è riuscito a bloccarne alcuni per un valore di 1,5 milioni di euro. Cifre importanti che vengono tolte alle casse della mafia, ma soprattutto operazioni che danno un segnale forte, deciso contro lo strapotere mafioso.  Il 20 novembre scorso, a Trapani, la Direzione Distrettuale Antimafia è riuscita a confiscare i beni intestati a Mariano Saracino e Giuseppe Pisciotta, imprenditori trapanesi molto vicini ai clan di Castellammare del Golfo e dell’hinterland palermitano.

I due, soci sin dagli anni ’70, sono stati inoltre condannati, rispettivamente, a 4 anni e a 2 anni e 6 mesi di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno. È la fine, quindi, di un rapporto (sociale ed economico) che si è consolidato, perché unito dal comune desiderio di favorire i clan mafiosi, di dare appoggio alla criminalità organizzata. Lo stesso Saracino è stato accusato, infatti, di aver offerto rifugio, nel corso degli anni, a numerosi boss latitanti e di aver fruttato un patrimonio enorme grazie alla gestione di imprese nel settore della produzione e del commercio del cemento, oltre che alle tipiche attività estorsive. Per Pisciotta, allo stesso modo, le accuse pendono su più fronti, poiché, oltre ad aver collaborato con Saracino, egli avrebbe anche favorito l’intestazione fittizia di numerosi beni e  ricevuto denaro ricavato dalla cessione di una società che egli, insieme a Saracino, gestiva di nascosto.

Finalmente, quindi, questo legame indissolubile che ha fruttato beni per 45 milioni di euro è stato spezzato; adesso  resta da capire “come” sarà possibile riutilizzare un patrimonio tanto grande. Soltanto due giorni dopo l’azione dei giudici di Trapani, anche il Tribunale di Messina  ha disposto la confisca di beni che raggiungono un valore sicuramente meno ampio, ma comunque importante. Questa volta, ad essere colpito dalla stangata della magistratura è il boss Giovanni Lo Duca, arrestato già nel 2005 durante l’operazione Anaconda e attualmente detenuto in regime di 41 bis. Tra i beni confiscati si annoverano auto di grossa cilindrata, imprese e addirittura polizze assicurative. Operazioni del genere non fanno altro che dimostrare l’enorme dimensione del potere economico mafioso.

Un potere che non conosce limiti e che non decresce col peggiorare della crisi, ma che, al contrario, si mantiene stabile a livelli davvero alti, specie se si pensa che un singolo individuo che vive nell’illegalità e nel mondo dell’illecito può possedere un patrimonio enorme senza alcun problema. Sembra un paradosso, eppure è una verità che è comune a tutte le province e a tutte le città della Sicilia e del sud Italia.

Per fortuna magistratura e forze dell’ordine riescono a forare il buco di potere oppressivo dei clan. È importante colpire le casseforti mafiose, ma sarebbe altrettanto importante poter utilizzare subito e nel migliore dei modi tutto il denaro ricavato. Perché la più grande vittoria della giustizia sull’illegalità sta proprio in questo: usare il frutto dell’illecito nella maniera più lecita e costruttiva possibile.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org