Sangue amaro e veleno in bocca, pugni stretti e una voglia matta di correre e trovare un po’ d’aria pura, come fossi un innocente rinchiuso dentro una galera illegale che non hai contribuito a costruire, dentro cui ti sei trovato per caso, per un gioco triste e crudele del destino. Accade spesso di conoscere questa sensazione proprio nei giorni della memoria, vale a dire in occasione di una ricorrenza, del ricordo di persone che hanno scelto di non rimanere indifferenti, di combattere, di demolire quella prigione indegna che detiene giustizia e verità, per liberarle, offrirle ad una nazione che le ha abbandonate, vilipese, respinte. Ciò che sta avvenendo in questi giorni, con Ingroia che lascia Palermo, il Csm che attacca Scarpinato, le polemiche tra una parte delle istituzioni e i magistrati che lottano per fare luce e giustizia su una delle vicende più gravi e decisive nella storia d’Italia, partorisce amarezza e rabbia.

La rabbia è il nutrimento più genuino della memoria e della consapevolezza e si appiccica in contemporanea ai fatti di oggi e alle tragedie di ieri, che non vanno mai dimenticate, perché sono l’esempio attorno a cui dobbiamo fortificare la nostra capacità di non cedere, di mantenere l’equilibrio su quel ponte lungo e traballante chiamato “resistenza” che ci permette di guadare un fiume pieno di rassegnazione e resa. In questi giorni (il 26 luglio) si è celebrato il ricordo di Rita Atria, giovane testimone di giustizia, figlia e sorella di due mafiosi di Partanna (Trapani), la quale, seguendo l’esempio di sua cognata Piera Aiello, aveva avuto il coraggio di raccontare ai giudici tutti gli affari e le dinamiche della mafia del luogo apprese dal fratello, ucciso nel 1991.

A soli 17 anni Rita aveva affidato tutto ciò che sapeva ad un magistrato palermitano, che era diventato per lei un punto di riferimento, un padre con valori diversi e opposti rispetto a quelli che il suo padre naturale, Vito Atria, mafioso ucciso nella guerra di mafia dei primi anni ’80, le aveva insegnato. Una scelta forte e coraggiosa venuta fuori dall’anima fragile di una ragazza troppo giovane per sopportare a lungo la costante presenza della morte, dei lutti che ne avevano segnato l’adolescenza. Paolo Borsellino la chiamava affettuosamente “a picciridda”, la bambina, sottolineando la dolcezza paterna di un rapporto speciale che aveva superato la normale collaborazione tra magistrato e testimone, divenendo sincera empatia, profondo affetto. Ecco perché l’esplosione di via D’Amelio, a distanza di una settimana, ha provocato un’altra vittima, la settima.

Il tritolo ha aperto uno squarcio sulla facciata del palazzo della madre di Borsellino e, nello stesso istante, a Roma, ha bucato il cuore di una ragazzina siciliana che ha perso l’ultimo appiglio per non sentirsi sola, smarrita, sperduta. La mafia, che le aveva già tolto quel padre e quel fratello invischiati nel pantano sudicio degli affari tra clan, il 19 luglio 1992 le ha strappato quell’uomo che incarnava la speranza in una vita nuova, libera, dove potesse tornare a splendere un sorriso uguale a quello che quel magistrato gentile le aveva offerto. Il fumo di via D’Amelio, invece, è arrivato fino a quella casa romana, dove Rita alloggiava, protetta da uno Stato che si lasciava strappare i suoi figli migliori, anzi, partecipava al loro massacro, attivamente, consapevolmente. Un salto, un tonfo silenzioso sull’angoscia di quei giorni, un addio discreto sulle parole, le celebrazioni, le polemiche, gli equilibri di potere, lo smarrimento, le lacrime, le reazioni, le lenzuola bianche, le urla in cattedrale.

Tutto spento, perché per Rita era davvero finito tutto, come aveva annunciato, qualche giorno prima, in via D’Amelio, uno sconsolato Caponnetto dinnanzi al fumo, ai detriti e ai brandelli che ricoprivano la strada di fronte alla casa della madre di Paolo Borsellino. Rita Atria è morta così, con un suicidio che, in realtà, è un omicidio. Vittima di quella strage, vittima di mafia. Indotta a morire dal fragore di un’esplosione lontana fisicamente e vicinissima emotivamente, interiore, intima, lacerante, insopportabile. Vittima di quello Stato che, 20 anni dopo, sappiamo esser stato complice, nascondendo le macchie di sangue dalle proprie camicie bianche, ricamando veli neri per vestire a lutto la verità e infilarla nella cassapanca stracolma dei segreti di Stato e dei misteri italiani.

Oggi la storia di Rita va raccontata, vanno narrati la sua dignità e il coraggio di ribellarsi ad una famiglia che non le apparteneva, distante nei valori e nella nobiltà d’animo. Dobbiamo ricordare che Rita Atria è l’esempio della volontà di cambiare quello che sembra un destino ineluttabile, già scritto per tradizione o costume familiare. Niente è definitivo e immutabile. Ma oltre al ricordo, abbiamo il dovere di spiegare che tocca a noi, soltanto a noi, evitare che le scelte di coraggio identiche a quella fatta da lei nel 1991 abbiano lo stesso triste epilogo. Perché la memoria non diventi un vestito sbiadito da indossare per l’occasione e da guardare poi distrattamente, ogni tanto, lasciando che macchie e strappi ne divorino colori e cuciture.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org