Atene, 5 marzo 2010: esplode la rabbia degli ateniesi contro l’Europa dopo l’annuncio delle misure anti-crisi da parte dell’ex Premier greco, Georges Papandreou. La capitale è teatro di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Marce di protesta si tengono anche a Salonicco e in altre città della penisola. Due anni più tardi, nel 2012, dopo un governo tecnico e due appuntamenti elettorali anticipati, si manifesta ancora. 

Madrid, 15 maggio 2011: nasce il movimento degli indignados, giovani, disoccupati, immigrati e lavoratori sottopagati che non vogliono semplicemente subire la crisi dovuta all’inefficienza della classe politica e a speculazioni finanziarie. Sono decine di migliaia le persone che scendono in piazza nella capitale spagnola per far sentire la loro voce. È un movimento pacifico e privo di interferenze politiche, motivo di speranza per milioni di persone in tutto il mondo. Due anni dopo, nel 2012, gli indignados tornano in piazza.

Roma, 15 ottobre 2011: scendono in piazza anche gli indignados italiani. Sono decine di migliaia, giovani, disoccupati, lavoratori, immigrati e famiglie. Anche loro puntano il dito contro la classe politica e l’alta finanza e, soprattutto, anche loro sono “arrabbiati”, pur essendo meno organizzati dei loro “compagni” europei. Ma la manifestazione prende una piega inaspettata per via dell’infiltrazione di teppisti e black block che distruggono vetrine, bruciano automobili e rovesciano cassonetti. Le proteste successive contro la crisi saranno quelle di categorie “isolate” di lavoratori e disoccupati.

Sono quattro esempi, molto diversi, di uno stesso malcontento che da oltre due anni riunisce in tutto il mondo occidentale, e non solo, milioni di persone. Sono la dimostrazione che il sistema capitalistico e consumistico è imploso e ormai pesa come un macigno sulle spalle delle nuove generazioni e delle fasce più deboli della società. In Spagna, dice Eduardo, “diventiamo ogni giorno più poveri solo per pagare gli interessi del debito. Trovare un lavoro dignitoso sembra impossibile e chi lavora si abitua a tutto: straordinari non pagati, stipendi versati ogni due-tre mesi e minacce costanti di licenziamento”. In Grecia, osserva Maria, “le regole non esistono, chi prima della crisi era molto benestante continua ad arricchirsi, mentre centinaia di attività commerciali e imprese chiudono, costringendo intere famiglie a rivolgersi ai servizi sociali”.

In Italia, “la pressione fiscale è aumentata, ma gli stipendi sono bassi e arrivare a fine mese per molte famiglie diventa sempre più difficile”, dice Elena. Basta parlare con un qualsiasi cittadino o residente (disoccupato, immigrato o lavoratore precario) di uno dei tre paesi europei, Italia, Grecia e Spagna, per rendersi conto che il sentimento di impotenza mista a rabbia per un sistema iniquo e ingiusto è lo stesso per milioni di persone, e in particolare per i giovani. Ma le reazioni sono diverse. “Una volta persa la speranza in un futuro migliore, è facile abituarsi allo sfruttamento”, sottolinea Eduardo, “eppure in questi giorni la protesta sta esplodendo in Spagna”, così come continuano le manifestazioni anticrisi in tutta la Grecia, dove le fasce deboli si sentono comunque sostenute e appoggiate da una larghissima fetta della popolazione.

Nelle piazze spagnole e perfino in Grecia, dove gli scontri con la polizia sono all’ordine del giorno, nelle piazze si protesta, si manifesta la propria rabbia, ma si discute anche, si cercano nuove soluzioni per un futuro condiviso. E in Italia? Nel Bel Paese le famiglie perdono reddito, le imprese chiudono e si moltiplicano gli scandali con politici refrattari alle dimissioni, ma le proteste, quelle organizzate, sembrano essere un lontano ricordo. Eppure alla manifestazione del 15 ottobre c’erano decine di migliaia di persone. Basta qualche tafferuglio e l’azione di pochi teppisti a fermare le iniziative di protesta in un paese che va incontro a una crisi ancor più grave di quella attuale?

Gli scioperi e le manifestazioni “isolate”di alcune categorie di lavoratori, precari o disoccupati in Italia sono sicuramente un indice di rabbia, frustrazione e insoddisfazione e un segnale per chi “governa nei palazzi del potere”, ma chi non riesce ad arrivare a fine mese ha bisogno della solidarietà del resto della popolazione. È necessario aprire un dibattito pubblico, nelle piazze, per  rifondare l’Italia su nuove basi e farne un Paese meno diviso e individualista. Ora o mai più.

G. L. -ilmegafono.org