Abbiamo raccontato spesso, su queste pagine, le storie di chi ha combattuto contro le mafie che devastano l’Italia, ne abbiamo narrato le scelte e le loro conseguenze, spesso fatali,  tragiche. Scelte come quella di fare il magistrato o il poliziotto o il carabiniere a Palermo, a Catania, a Napoli, o di fare il proprio dovere fino in fondo nella Milano dominata dagli affari loschi di Sindona, o di essere un giornalista dalla schiena dritta, un sindacalista integerrimo, un sacerdote che difende i suoi fratelli e il suo Dio dalla minaccia del crimine organizzato, un politico che vuole istituzioni libere dalle infiltrazioni, un testimone di giustizia che sente il dovere di parlare, un cittadino qualunque che non si rassegna. Abbiamo offerto a voi lettori tante storie, esempi di chi ha scelto di stare dalla parte giusta, l’unica possibile, storie che hanno quasi sempre avuto un esito drammatico, terribile.

E molte di queste riguardano donne che hanno reagito, madri che hanno cercato per anni la verità, come Felicia Impastato, Ninetta Burgio, Saveria Antiochia, donne che hanno lottato per salvare il proprio territorio dall’assalto criminale, come ha fatto Renata Fonte, donne che hanno saputo spezzare le catene infette di rapporti familiari laceranti, resistendo con forza come Piera Aiello o Giuseppina Pesce. E poi ci sono le donne che quelle catene le avevano spezzate ma poi non ce l’hanno più fatta ad andare avanti, sfinite dalla vita e dal senso di sconforto, come Rita Atria, o dalla violenza, come accaduto a Maria Concetta Cacciola. Proprio a quest’ultima vogliamo dedicare il nostro pensiero, per la vicenda terribile di un’esistenza a cui non è bastato solo il coraggio di rompere il muro silenzioso di un ambiente familiare insopportabile per poter acquistare e respirare libertà.

La forza, la volontà di stravolgere la direttrice lungo la quale il destino l’aveva collocata, lei che era nipote di un boss e moglie di un affiliato, l’avevano spinta, a maggio dell’anno scorso, a raccontare tutto ciò che sapeva ai Carabinieri di Rosarno. Lo aveva fatto spontaneamente, perché voleva avere una possibilità di vita nuova, lontana dal grigiore funesto delle ‘ndrine, dei codici e delle mentalità dei clan di mafia. Voleva la vita di una ragazza di 31 anni costretta a crescere in fretta in un ambiente che non sopportava, non accettava. Così decide di parlare ed entra nel programma di protezione, in cui non fa inserire i tre figli. Perché? Perché probabilmente non vuole costringerli ad una vita blindata, non vuole far pesare su di loro la sua scelta coraggiosa. E nel far questo, si fida di sua madre, a cui affida i suoi figli. Che però ben presto diventano l’arma di ricatto usata dalla famiglia nei suoi confronti.

Maria Concetta allora decide di tornare a casa. E lì, stando a quanto emerge dalle indagini che hanno portato all’arresto dei suoi genitori e del fratello, la 31enne testimone di giustizia viene sottoposta a reiterate e pesantissime violenze psicologiche e fisiche. Vuole andare via e questa volta portare via anche i figli. Si accorda con i Carabinieri, ai quali aveva chiesto più volte di andare a prenderla e farla scappare, ma senza essere vista. Cosa che non è stata possibile, perché Maria Concetta era sempre controllata, costantemente sorvegliata. Fino al 20 agosto 2011, giorno in cui, a quanto pare, si è suicidata ingerendo acido muriatico. Una fine atroce, dettata da una sofferenza psicologica terribile dovuta alle violenze subite.

Adesso, a 6 mesi di distanza, l’arresto dei 3 familiari e le indagini su alcuni avvocati. Sì, perché gli inquirenti hanno scoperto che la Cacciola sarebbe stata costretta a scrivere sotto dettatura una lunga lettera pubblica e a registrare un audio in cui ritrattava e definiva false tutte le cose raccontate ai magistrati. Una vicenda che ancora ha molti lati da chiarire, sebbene l’ipotesi del suicidio legato a pressioni psicologiche e violenze sia la più probabile.

Una storia triste e dolorosa che però fa emergere, ancora una volta, come le donne, nel caso della ‘ndrangheta, stanno trovando il coraggio di reagire, di uscire fuori dalla palude delle ‘ndrine, trovandosi però spesso isolate, per poi tornare nelle mani di coloro che accusano. Impossibile non pensare a Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia rapita e sciolta nell’acido alle porte di Milano. L’acido, un comune denominatore della conclusione tragica di due vite, della morte di due donne che avevano alzato la testa. Una coincidenza? Lo diranno le indagini che, nel caso di Maria Concetta, parlano di suicidio. Intanto resta l’amara e dolorosa certezza di un epilogo che doveva e poteva essere diverso.

Redazione – ilmegafono.org