Quanto dura una rivoluzione? Potremmo porci questa domanda, pensando a quel che è accaduto e accade in Sicilia. Potremmo rispondere che le rivoluzioni, storicamente, sono momenti in cui un’avanguardia del popolo (non sottovaluterei questa parola ed il suo senso reale) prende coscienza e si organizza, protesta, agisce, coinvolge tutti quelli che non avevano capito o avevano timore. Una rivoluzione ha bisogno di trovare consenso, di incarnare i problemi reali, le difficoltà primarie che affliggono un territorio, una regione, uno Stato. Solo in questo modo si può procedere a oltranza, fino a quando non si sovverte l’ordine che la Storia sembra aver imposto in maniera quasi definitiva. La rivolta dei forconi non c’è riuscita, com’era ovvio, e non ci riuscirà mai. Perché ha un peccato originale, un vizio di fondo: non è un movimento di popolo, nel senso nobile di questa parola, ma un rigurgito nato da un gruppo guidato dai soliti furbetti compromessi con la classe politica che governa la regione e dagli autotrasportatori, una corporazione di piccoli imprenditori del trasporto.

Il popolo ci è finito di striscio, nel senso che quella parte onesta che in buonafede ha scelto di scendere per strada ha provato ad infilarsi, a portare alla ribalta le proprie rivendicazioni, offuscate, nascoste da chi ha altri interessi, da chi cerca di contrattare qualcosa per la propria categoria e per le proprie mire politiche. Ed è il motivo per cui, oggi, mi chiedo: che fine hanno fatto quei prodi rivoluzionari con le forche puntate sul nulla e con il silenzio assoluto sulle infiltrazioni mafiose che hanno sporcato nuovamente l’immagine dell’isola? Per chi non lo sapesse, visto il silenzio dei mass media, il movimento è diviso tra chi continua a protestare con presidi e con l’occupazione di alcuni palazzi comunali e chi, come gli autotrasportatori, organizza una piattaforma da portare al governo, nella quale si chiede un abbassamento del costo del gasolio e delle assicurazioni, nuove regole e tariffe per l’attraversamento dello Stretto e, infine, la sospensione dell’obbligo del Durc, documento unico di regolarità contributiva.

Richieste settoriali, corporative, che non c’entrano nulla né con i problemi del popolo siciliano né con quelli dei lavoratori del trasporto (i semplici dipendenti e non i padroncini che fanno capo all’Aias). L’ultima poi, quella relativa al Durc, è pericolosa, perché mira a favorire l’illegalità, in quanto il Durc è un documento che certifica la regolarità delle aziende ed è obbligatorio per la partecipazione ad appalti e subappalti di lavori pubblici (verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare, aggiudicazione alle gare, aggiudicazione dell’appalto, stipula del contratto, stati d’avanzamento lavori, liquidazioni finali), o per i lavori privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o alla DIA (denuncia di inizio attività).  Nel frattempo, Mariano Ferro, leader dei Forconi, annuncia l’intenzione di dar vita ad un soggetto politico che porti avanti le istanze del movimento.

Tutto come previsto, tutto esattamente come annunciato. Una farsa, che purtroppo ha coinvolto anche ragioni vere di persone sinceramente (lo ribadisco per i lettori meno accorti) convinte della bontà del movimento e della possibilità di cambiare qualcosa e che oggi magari continuano a cercare spazio dove far emergere queste ragioni. Una rivolta come tante che serviva ai leader per crearsi una strada politica alternativa e ad alcune corporazioni per avere maggiore potere contrattuale nella battaglia volta alla tutela dei propri interessi imprenditoriali. Di concreto si è ottenuto soltanto un danno economico per l’isola, usato adesso come minaccia di fronte ad una eventuale risposta non gradita, non in linea con gli interessi in gioco, e un’immagine distorta circa la capacità della Sicilia e del Sud di esprimere un movimento e una classe dirigente che siano più mature e meno rozze di quelle di espressione nordista a cui tanto sembrano assomigliare, quantomeno nei modi e nel livello culturale dei capi.

E se ci aggiungiamo che tra i leader del movimento, tra coloro che chiedevano maggiori tutele e investimenti per l’agricoltura, attraverso fondi europei da riassegnare, c’era qualcuno che controllava l’intermediazione agricola da Vittoria alla Campania, in compagnia del clan dei casalesi, direi che l’immagine che il movimento ha fornito è stata offensiva, più delle parole e degli insulti rivolti a tutti quelli che abbiamo semplicemente cercato di difendere la Sicilia e il Sud da queste macchiette reazionarie travestite da capi rivoluzionari, che hanno nascosto le centinaia di migliaia di siciliani e meridionali che ogni giorno, con onestà, generosità e sacrificio, combattono battaglie durissime per cambiare il corso delle cose, scegliendo bene da che parte stare e rifiutando l’appoggio di certe forze politiche e di certi ambienti.

Nel resto d’Italia dei Forconi non si parla più e probabilmente, nel giro di poco tempo, non se ne parlerà nemmeno in Sicilia. Rimarrà solo un ricordo da dividere tra i delusi (quelli che ci avevano sinceramente creduto), i nostalgici (quelli che l’avevano fatto nascere per avere un po’ di celebrità e qualche pass politico), gli incazzati (quelli che scuotevano la testa di fronte all’eccitazione barbarica degli aderenti). Intanto, consapevole di nuovi attacchi e accuse che arriveranno, in conclusione pongo nuovamente una domanda: come mai i forconi non hanno puntato le loro forche su chi controlla il mercato ortofrutticolo di Vittoria? Forse per qualche leader del movimento si sarebbe trattato di conflitto di interessi?

Massimiliano Perna –ilmegafono.org