Mi hanno sempre insegnato che agli anziani si deve rispetto. Quando da bambino mi veniva impartito questo fondamentale principio educativo, non sentivo nemmeno il bisogno di approfondirne le ragioni. Guardavo i vecchi e naturalmente ne apprezzavo la fragilità, la dolcezza, sentivo un profondo senso di vita di fronte all’immensa esperienza di quei volti scavati dal tempo e dal sole del Sud. Guardavo i loro occhi, ascoltavo i loro racconti, respiravo la storia, senza date e nozioni, fatta solo di semplice umanità quotidiana, di vite che la storia stessa ha attraversato, mischiandole, gettandole nel suo vorticoso scorrere. Dinnanzi ad occhi che avevano vissuto la guerra (alcuni perfino le due guerre), il dramma di perdite terribili, l’ineluttabile convivenza con la morte e con la fame, la capacità di adattarsi, resistere, guardare avanti, ogni cosa diveniva superflua. Perdonavo così anche le mentalità lontane dal mio modo di vedere il mondo, le piccole ostinazioni, i difetti e le ingenuità.
Crescendo ho poi capito che il rispetto è lo stesso che si deve ad una persona qualsiasi, indipendentemente dall’età. Categorizzarlo, limitarlo è ipocrita. Perché bisognerebbe rispettare un anziano come un bambino, un coetaneo o chiunque altro, dato che è ciò che si dovrebbe ad ogni essere umano, senza gradazioni diverse. Ma per chi, come me, tormentava dolcemente i propri nonni per farsi raccontare nel dettaglio in che modo si svolgesse la loro vita nella prima metà del Novecento, cosa fosse stata davvero la guerra, quanto tangibili fossero le negazioni dei diritti nel periodo fascista, il rispetto per gli anziani coincide con quello per la storia. E così facevo domande su domande, ricevendo risposte che mi hanno fatto crescere, pensare, respingere ed odiare qualsiasi ingiustizia, qualsiasi forma di dittatura politica ed intellettuale, sentire il respiro di una storia che ha marciato per anni sulle gambe del popolo, di uomini di cultura e di persone semplici, tutte insieme, unite, per crescere non come individui ma come Paese.
Questo è quello che ancora riesce a farmi amare in parte l’Italia. La stessa che trovo ritratta nel “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo. Ma dov’è finita quell’Italia oggi? E dov’è il rispetto verso chi si è sacrificato per cercare di tramandarci una forma democratica in cui i diritti fondamentali fossero la base intoccabile ed inalienabile? Il Primo Maggio andrebbe sempre scritto in maiuscolo, non solo sui fogli o negli articoli, ma soprattutto nella vita, ogni giorno, ogni istante. Ed invece, questa data, che un tempo promanava tutto il suo intenso significato, oggi viene svenduta, vilipesa, aggredita. La giornata dei diritti dei lavoratori, in un momento come quello attuale, che per il mondo del lavoro è delicato e drammatico, diventa terreno di scontro tra chi se ne infischia di ogni regola e diritto (le imprese) e che, in nome del business, pretende che si lavori anche il Primo Maggio, e chi invece si oppone, giustamente, a questa ignobile logica schiavista.
L’effetto Marchionne, evidentemente, ha contagiato diversi settori, aprendo una falla pericolosa: c’è chi si è convinto che ormai sui lavoratori e sui loro diritti si possa passare sopra in qualsiasi modo e momento. I sindacati, su cui pesa la vergognosa spaccatura storica, acuitasi con il caso Fiat, in conseguenza del moderatismo servile di Cisl e Uil e dei giochetti di potere interni alla Cgil per indebolire la Fiom, provano a trovare compattezza su uno dei pochi temi attorno al quale ciò è ancora possibile. E intanto, a parte il fenomeno musicale e mediatico del Concertone, che qualcuno ingenuamente ha eletto a simbolo di quella che dovrebbe essere una rivendicazione di piazza reale, forte e dura, che poco ha a che vedere con la musica, resta lo sconcerto per chi vuole negozi aperti e dipendenti al lavoro.
E c’è anche chi pensa di approfittare di questa occasione per compiere l’ennesimo, scellerato oltraggio alla memoria. A Portella della Ginestra, nel comune di Piana degli Albanesi (Pa), teatro della sanguinosa strage di lavoratori, comunisti e sindacalisti uccisi da un attentato attribuito alla banda Giuliano e i cui mandanti politici sono rimasti impuniti, il sindaco del Pdl ha deciso di mischiare la cerimonia di commemorazione delle 12 vittime di Portella con una festa a base di cannoli e di attività mondane, che avrà come padrino d’eccezione Lele Mora, lo squallido protagonista degli scandali sessuali di questi ultimi tempi e, soprattutto, uomo che si dichiara fascista e che vive un perverso feticismo nei confronti delle icone del Duce e della simbologia mussoliniana.
Un oltraggio che ha scatenato le polemiche di chi sa che dietro la strage del Primo Maggio 1947 si nasconde uno dei più ignobili segreti di Stato e che a pianificare e compiere l’eccidio probabilmente fu un gruppo occulto di cui facevano parte esponenti del potere fascista (con in testa Valerio Junio Borghese e la X Mas), della mafia e dell’ala oscura, anticomunista e filo-mafiosa, della Dc siciliana. La scelta del sindaco di Piana è l’emblema dello svilimento e dell’umiliazione a cui tutti i simboli della storia d’Italia, del sacrificio di uomini e donne, della lotta per i diritti sono sottoposti. Un assalto frontale, compiuto senza pudore, senza freni.
Questa gente pensa di avere in mano l’Italia e di gestirla come crede, senza dover dare spiegazioni, cancellando, con fazzoletti griffati e unti di tracotante superficialità, ciò che viene ritenuto “vecchio”, “superato”. Perché i diritti, al cospetto dei padroni, degli aguzzini, dei magnaccia e delle puttane di Stato, sono come i libri per un nazista, per un ministro italiano o per una velina: oggetti fastidiosi o sconosciuti. Nel frattempo, dall’altra parte ci si limita a suonare e cantare…Ed in mezzo? In mezzo ci siamo noi, ad affogare insieme ai nostri diritti ed a lottare da soli per non perderli del tutto.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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