Nella settimana che ha visto il trionfo hollywoodiano de “La Grande Bellezza”, firmato dalla coppia Sorrentino-Servillo, in tanti sono stati contagiati dalla smania di festeggiare o di analizzare, vivisezionare il film alla stregua dei critici cinematografici più esperti. Forse anche troppo e spesso sviando dal senso dello stesso. In questa orgia di bellezza, di esaltazione di una fotografia che mostra l’inestimabile patrimonio artistico della Capitale, ci si è dimenticati però di inorridire per l’ennesimo crollo a Pompei. La notizia è passata, infatti, sotto i volti sbadiglianti di chi ormai la considera “normalità”, consuetudine di un Paese nel quale i segni del declino sono ravvisabili nell’incuria e nell’abbandono, che si specchiano nella vacuità morale e intellettuale della classe dirigente, nel silenzio o nella tosse conformista degli intellettuali, nei salotti festosi della borghesia economica, rozza e ipocrita, sfrontata e moralista, nella distrazione lamentosa dei cittadini.

Pompei è una vergogna nazionale trattata come fenomeno locale, senza un piano di interventi che vada oltre le dichiarazioni, senza che si mostri amore per quella meraviglia che la storia ci ha lasciato come risarcimento di una tremenda sciagura. La Bellezza, quella maiuscola, che si sgretola dinnanzi all’insolenza del potere, all’inettitudine, alla volgarità dello spreco, al disprezzo per la cultura e per la sua funzione educativa e permanente. Sarebbe bello se gli estimatori del film neopremiato a Hollywood mostrassero la stessa passione, lo stesso accanimento per il tema vero della salvaguardia di un patrimonio storico-artistico, culturale, archeologico, paesaggistico che ci viene rubato, sottratto, massacrato sotto i nostri occhi.

Monumenti, riserve, tratti di costa di raro incanto, aree di pregio archeologico e architettonico, edifici antichi, pezzi di territorio ricchi di risorse, scorci, tradizioni, costumi e tutti quegli elementi che li rendono unici. Ma non è solo una questione ambientale, anzi è principalmente politica. E in questo “La Grande Bellezza” ha un merito: quello di mostrarci la degenerazione di una società, di un modello che si è plasmato negli anni ’80 e che gradualmente si è gonfiato, con ingordigia e arroganza, fino a raggiungere i livelli di obesità morale che ne costituiscono la cancrena, lo stadio finale di un distacco che però non è ancora definitivo.

Perché c’è un popolo che rimane sempre pronto a passarci sopra, a dimenticare, ad aggrapparsi, un popolo che non impara la lezione, che manca di guide intellettuali capaci di indicare una strada alternativa a quella disegnata dal potere. Così si galleggia, confidando nei vari idoli, nei salvatori della patria che promettono sempre le stesse cose, spesso nello stesso ordine e perfino con parole simili. Renzi, adesso tocca a lui. Va a Siracusa, visita una scuola, accolto dai bambini festanti che intonano una orribile canzoncina e urlano “Matteo, Matteo” (che tristezza!). Finisce negli scatti dei tanti “socialmaniaci” che condividono in tempo reale le foto con il suo faccione a volte serio altre volte sorridente, ascolta la gente che chiede di essere liberata dai vecchi politici (ma chi li votava?), si becca anche qualche contestazione (qualche grillino e i neofascisti).

Parla di occupazione e dei posti di lavoro che verranno (argomento nuovo e originale, direi). Promette il meglio, con il suo accento toscano e la faccia pulita e rilassata. Lui, l’ex sindaco più famoso d’Italia, circondato da ex colleghi in fascia tricolore. Gli stessi, non tutti per carità, che spesso sonnecchiano e che si preoccupano più di gestire potere e racimolare risorse che di pensare (e soprattutto progettare) a come investirle. Promette e sorride, mentre il Paese conosce il tasso di disoccupazione record e lo apprende con un insensato stupore. Annuncia, ripete lo slogan “l’Italia ce la farà”, mentre la crisi stringe il cappio della disperazione e dei suicidi. Slogan, eredi di altri analoghi, tutti ottimisti, a indicare una strada nascosta, astratta, senza però fornirne le indicazioni, le coordinate, i tratti concreti.

La gente applaude sempre in questo Paese, si distrae con le battute, le speranze prive di sostanza, gli eventi che sanno di festa. Ma è una festa triste, come l’entusiasmo che scatena, falso, fittizio, disgregante. Esattamente come i party dentro le ville della Roma e dell’Italia del potere, dentro cui danzano interessi, accordi, compromessi, strategie pilotate da grossi gruppi finanziari, da grandi pupari grigi, coloro che, parafrasando Gambardella/Servillo, più che organizzarle quelle feste, hanno “il potere di farle fallire” in qualsiasi momento. La gente applaude mentre le fottono la bellezza, grande o piccola che sia. Ride e spera, mentre il meglio le muore intorno e basterebbe accorgersene e curarsene, rifiutando i medicinali nocivi che dall’alto le propinano, per riuscire a ricostruirsi una coscienza e allontanare la rassegnazione.

Non basta certo un premio prestigioso a un film onesto per farci dimenticare tutto e placare l’assoluto bisogno degli italiani di recuperare la bellezza che intanto lasciamo crollare, inesorabilmente, senza nemmeno provare a soccorrerla. Così come è inutile accontentarsi di trovarla dentro una pellicola che ce ne mostra un po’, ma poi giustamente la opprime, facendoci percepire, attraverso il bello, il peso tremendo della bruttezza che ci circonda, ci governa, ci appartiene. E ad alcuni di noi riesce ancora a far venire la nausea.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org