Il 15 marzo, poco dopo le 15, a casa di Rosaria Intranuovo, madre di Tony Drago, militare in forza ai Lancieri di Montebello trovato morto dentro la caserma Sabatini di Roma il 6 luglio 2014, squilla il telefono. Dall’altra parte della cornetta c’è l’ing.Grazia La Cava, esperta di cinematica che ha eseguito le perizie su incarico della famiglia di Tony. L’attesa è finalmente finita. L’udienza, durante la quale il gip di Roma, Angela Gerardi, doveva decidere sulla base delle perizie presentate dai tecnici della Procura, è terminata con una importantissima certezza: la morte del giovane caporale siracusano non è avvenuta per suicidio.

L’ipotesi che, con una fretta sospetta, i vertici della Sabatini e i carabinieri (Granatieri di Sardegna) incaricati di svolgere le indagini avevano subito caldeggiato e mai messo in dubbio, è ufficialmente respinta. Tony è stato ucciso. Come ha da subito sostenuto mamma Rosaria, che ha accolto la notizia insieme a suo marito Alfredo, scoppiando in lacrime. Una “amara contentezza”, come l’ha definita Alfredo, che abbiamo sentito poco dopo. Amara perché, anche davanti a una notizia positiva, chi ha perso un figlio, un fratello, un parente, un amico, non può gioire, visto che nessuna buona nuova potrà riportare indietro chi è stato strappato alla sua vita, ai suoi sogni e ai suoi affetti con estrema violenza.

L’esercito ha sulla coscienza un altro ragazzo. Adesso lo possiamo dire senza timore di smentita. Come ha ribadito più volte, nelle scorse settimane, anche l’avvocato Dario Riccioli, legale della famiglia del militare ucciso, le lesioni sul corpo di Tony, le scarnificazioni, la posizione del cadavere assolutamente incompatibile con un volo da 10 metri, sono tutti elementi che non lasciano spazio a dubbi: Tony è stato ucciso e “prima di morire ha subito una violenza feroce. Adesso, anche se con un ritardo di oltre due anni e mezzo, la magistratura avrà l’occasione di fare luce su una vicenda che riapre la questione della violenza dentro le caserme, diciassette anni dopo il caso di Emanuele Scieri, ucciso da responsabili ancora ignoti e attualmente oggetto di una Commissione parlamentare di inchiesta che sta provando l’ultima disperata via per individuare gli assassini.

“Tony ce lo hanno ucciso due volte”, mi dice Alfredo con la voce rotta da un mix di dolore e stanchezza. Ed ha ragione. Perché l’esercito, ossia lo Stato, questo ragazzo se lo era preso e aveva l’obbligo, almeno in tempo di pace, di tutelarne l’incolumità. E invece ha lasciato che venisse ucciso una prima volta dentro una caserma e poi che morisse, una seconda volta, sotto i colpi del silenzio, dell’omertà, dei tentativi di insabbiamento. Sono troppi i dubbi sul comportamento di molti protagonisti di questa storia, per la quale otto persone al momento sono indagate e, dopo quanto emerso il 15 marzo, potrebbero essere rinviate a giudizio. Ma non è detto che siano loro i colpevoli o che siano gli unici.

Perché i responsabili della caserma e i generali, come avvenne anche per il caso Scieri, non possono non sapere. E dovrebbero spiegare perché al primo legale della famiglia di Tony è stato consentito l’accesso alla caserma solo un mese dopo la morte. Dovrebbero spiegare anche perché, già nelle prime ore del mattino di quel dannato 6 luglio di quasi tre anni fa, scrissero una mail parlando con certezza di suicidio e spingendosi persino oltre, indicando anche il motivo del gesto estremo (problemi sentimentali). Ma non solo i militari dovrebbero fornirci risposte. Sarebbe interessante sentire anche il medico del 118 che si è recato sul posto, chiamato dai militari, e chiedere come mai abbia indicato subito, come causa della morte, la precipitazione, escludendo tout court atti di violenza.

Oppure sentire il medico legale che per primo ha effettuato l’autopsia sul corpo di Tony, presso l’ospedale Gemelli di Roma, consegnando una perizia autoptica piena di lacune (le stesse che oggi, colmate, hanno permesso di escludere con certezza il suicidio), fra le quali l’insolita assenza di indicazioni sull’ora presunta del decesso. Insomma, bisognerà indagare a fondo, interrogare, scavare per capire come mai e per quale disegno oscuro si sia cercato di far passare con insistenza per suicidio quello che è un evidente caso di omicidio.

Chi e perché, dentro la caserma Sabatini, in uno dei corpi militari più prestigiosi dell’esercito italiano, ha tentato e tenta ancora di nascondere questa verità? Cosa aveva scoperto Tony? Cosa lo rendeva inquieto e preoccupato al punto da dire che in caserma “il clima si era fatto pesante”? Chi e perché lo avrebbe aggredito di notte, mentre dormiva, un mese e mezzo prima della morte? Perché un ex graduato dell’esercito, amico di famiglia, con il quale lo stesso Tony aveva parlato più volte negli ultimi tempi, alla richiesta di mamma Rosaria di rivelargli cosa sapesse, ha risposto di non volerne sapere nulla, consigliando di lasciar perdere perché, come ci ha riferito la stessa Rosaria, “con l’esercito non la spunti”?

Sono troppi gli interrogativi che circondano questa triste vicenda sulla quale la vera assente fino ad oggi, insieme alla giustizia, è stata la politica, che non si è mossa, non è intervenuta. Nessun ministro né tantomeno l’ex premier o quello attuale si sono intestati questa battaglia di verità, pretendendola dai vertici dell’esercito, con la minaccia magari di far saltare qualche capoccia in caso di omertà continuata. Oggi, un giudice ha scelto di fare quello che lo Stato avrebbe dovuto fare già nel 2014.  Siamo ancora in tempo, ma serve più attenzione, anche da parte degli organi di stampa e della pubblica opinione.

Perché quella della famiglia di Tony non è solo la lotta per scoprire i responsabili della barbara uccisione del loro congiunto, ma è la lotta per la giustizia di tutti, per fare in modo che le caserme, così come le carceri, le stazioni di polizia e le altre strutture gestite dallo Stato non siano più luoghi nei quali il diritto venga sospeso e le conseguenze di questa sospensione vengano nascoste sotto la sabbia del tempo che passa, cancella prove e annacqua responsabilità, consegnando a chi, oggi o domani, potrebbe avere in mano i nostri figli l’arma violenta e insopportabile dell’impunità.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org