C’è l’Italia di Terzigno e c’è l’Italia di Giampilieri. C’è l’Italia de L’Aquila e c’è l’Italia di Giampilieri. C’è pure l’Italia del polpo Paul, e poi c’è l’Italia di Giampilieri. Sono due Italie, con due modelli di italiani. Un’Italia con le luci accese che parla e commenta, con italiani che alzano la voce, e spesso pure le mani, le spranghe e le molotov; e un’Italia al buio, con gli italiani che restano con la testa bassa e la bocca chiusa.

Sono giorni di fuoco e puzza dalle parti di Napoli, con la gente esasperata che pure di fronte a un Bertolaso pacato, come quello apparso da Michele Santoro ad Annozero, urlano quasi minacciosi un “vattene via!” senza timori. Rivogliono la loro terra, dicono, e la rivogliono pulita. Non ci stanno ad accumulare i fetori dell’inferno nelle valli ai piedi del Vesuvio, e sono pronti a dare battaglia stampandosi sulla fronte la frase “ma noi non siamo camorristi”.

Sono stati giorni di fuoco a L’Aquila prima dell’estate, con rivolte delle carriole, invasioni nelle zone rosse, manifestazioni fin sotto i palazzi del governo a Roma. E anche lì Annozero, e anche lì confronti con Bertolaso, che candido come i liquami di Terzigno precisa sempre che a lui lo chiamano, che lui c’è perché ci sono le emergenze. Insomma: lui è dove il danno arriva. È matematica. Solo che esistono modi diversi per spiegare la stessa formula: dove la voce è alta, dove girano le carriole, dove ci si sdraia sotto i camion, si espongono striscioni, si formano picchetti, il danno è frutto del caso o della cattiva gestione di ignoti (che tutt’al più si nascondono sotto sigle di società mitiche come Atlantide); dove invece il silenzio impera, dove non ci si riesce a organizzare neanche per la più piccola manifestazione, dove gli striscioni non li fanno, nessuno si espone, le strade rimangono deserte, il danno se lo sono cercato.

Quest’ultima opzione è quella che Bertolaso ha usato per Giampilieri, che è rimasta inerte, immobile sotto il nuovo fango uscito dalla bocca dell’uomo delle emergenze. Dovremmo chiederci il perché, che cos’è che non va, cos’è che fa della Sicilia quel muto pezzo di terra che assorbe i problemi come una spugna nel pozzo. A Terzigno la gente appare esasperata per i liquami: si tratta di una discarica che interessa un territorio relativamente piccolo, sì, ma un fazzoletto che è riuscito a smuovere l’Unione Europea. Giampilieri non ha smosso neanche i palazzi della provincia di Messina… Alla luce della storia recente dell’Isola, però, non è poi così strano.

Siracusa è il più splendente degli esempi della non-protesta, delle spalle girate. Una provincia in parte violentata e devastata, dove si muore per tumore nell’indifferenza degli automobilisti del resto del mondo, e dove è stata cancellata una intera comunità, dalla memoria antichissima, per far spazio all’avanzamento industriale: la frazione di Marina di Melilli è il defunto simbolo della corsa spregiudicata per le brame di denaro; è lo spaventapasseri della Sicilia, buono per far allontanare le idee di chi crede che un cartellone possa far cambiare idea a chi ha ignorato anche la più piccola norma di tutela di un territorio che un tempo faceva della Sicilia il centro del mondo. Qualcuno provò, negli anni in cui l’Erg si chiamava Isab, ad opporsi alla distruzione, ma finì i suoi giorni incaprettato. Salvatore Gurreri è l’eccezione che conferma la regola del silenzio.

Il bello è che dalla Sicilia la gente sale a protestare fino a Roma, a marciare fra i colori dell’arcobaleno e urlare slogan contro un primo ministro che gioca al “bunga bunga”. Mentre a Siracusa si continua a morire. Poi da Roma ogni tanto scende qualcuno a guardare come si sta nella Sicilia dei veleni e delle alluvioni. In questi giorni Antonio Di Pietro è sceso fino a Giampilieiri per incontrare chi ha lottato col fango di quest’anno, dello scorso anno e degli anni precedenti, parlando di “solidarietà”. Ma sono visite pari a quelle di malati che non si conoscono, che sono amici di conoscenti, brave persone dalle quali si passa per cortesia, a volte per solidarietà di paese. Perché si fa. Una volta via non ci si scambia neanche i numeri di telefono.

Sebastiano Ambra -ilmegafono.org