Mattoni spezzati, crollati su corpi e su speranze giovani finiti dal bisogno e dall’inferno di una società che naviga a vele spiegate sul mare insanguinato del paradosso: lavorare per vivere, morire lavorando. Barletta come Torino, come Mineo, Sarroch e tante altre città d’Italia dove il lavoro ogni giorno diviene sinonimo di tragedia, che avvolge e sconvolge famiglie, comunità, madri, padri, figli, fratelli e sorelle. Una quotidianità spezzata da una malattia che non è biologica, organica, naturale, ma sociale e culturale, creata nel laboratorio infetto di un sistema economico e produttivo precipitato negli abissi del diritto, con uno spericolato salto all’indietro che ci riporta a condizioni che sembravano ormai appartenere ad un passato remoto. Nel centro di Barletta la storia si è ripresentata, con funeste similitudini, 103 anni e 7 mesi dopo New York e quelle 129 operaie della fabbrica tessile Cotton arse vive dentro lo stabilimento, tra le fiamme dolose e le porte bloccate dal proprietario.
Quelle donne protestavano per i loro diritti, contro condizioni di lavoro disumane. E protestarono per giorni. Avevano tutto da perdere, niente da guadagnare, avevano fame e bisogno, ma anche la consapevolezza civile di non poter accettare il sacrificio della propria dignità e della propria vita. A Barletta, cinque donne, quattro operaie, sono state schiacciate dall’incuria, dalla speculazione, dalla superficialità criminale che la magistratura dovrà accertare, sono state uccise da quel bisogno troppo silenzioso, privo di protesta, che annega nella palude del lavoro sommerso. Lavorare dalle 8 alle 14 ore al giorno, in una palazzina che scricchiola, a 3,95 o a 4 euro l’ora, confezionando magliette, tute e altri capi di abbigliamento in locali inidonei ed insicuri. Di contratti, a quanto pare, nemmeno l’ombra. Nessuna tutela, nessun orario fisso, niente contributi. Schiave, costrette dalla necessità di guadagnare il minimo sufficiente per vivere. Più ore di lavoro più introiti, quindi non è il caso di risparmiarsi o di fare troppe storie.
Il nostro Paese è pieno di posti come quello di Barletta, minacce incombenti pronte a mutarsi in tragedie concrete. Poche denunce, nessuna solidarietà sociale, un sottobosco di individualità che preferiscono accettare il rischio piuttosto che perdere la certezza, anche temporanea, di un guadagno. E i “padroni” lo sanno, ne approfittano, magari in modo gentile, con il sorriso bonario sulle labbra, un sorriso che vuol dire “dai, non lamentarti, ti sto dando da mangiare”. Ed allora la tredicesima e le ferie pagate, anche se non hai un contratto, assumono l’aspetto drogato di un regalo, un gesto di bontà, non un diritto di cui godere. Ma questa volta è lo stesso padrone a dover piangere, perché il destino ha voluto che in quel laboratorio, a quanto pare sconosciuto all’Inps, ci fosse la figlia del titolare, appena 14enne, uscita prima da scuola ed entrata al piano terra di quel palazzo, per vedere se i genitori fossero al lavoro. Un’altra vittima innocente, non ancora lavoratrice, eppure finita dentro una tragedia atroce, beffarda come il destino.
E adesso? Adesso, dopo il dolore, è il momento dell’indignazione, delle inchieste, dei processi, delle tante parole fetide di retorica vomitate dai banchi istituzionali, tutti pronti ad accusare, a condannare, senza mai far caso alle proprie mancanze, alle proprie responsabilità. Quella palazzina di via Roma è l’emblema del Paese che crolla, che si affloscia su se stesso schiacciando il popolo, quel popolo abbandonato, con l’alibi della crisi, nella sua lotta quotidiana per sopravvivere, quella massa di lavoratori sacrificata all’altare degli interessi dei grandi gruppi industriali e delle imprese. Lavoratori che devono essere privati di tutto, compresi i diritti fondamentali guadagnati con il sacrificio di donne e uomini coraggiosi ed illuminati.
A Barletta tra le macerie si sollevano la polvere ed il fumo dell’Italia di Marchionne, di Calearo, Brunetta, Sacconi, dei sindacalisti pro forma come Angeletti e Bonanni, del centrodestra industrialista e del Pd alla Enrico Letta, che dei lavoratori ha dimenticato persino la fisionomia. Crolla l’Italia a Barletta, un’Italia di macerie pesanti, dove rimangono imprigionati il diritto, il futuro, la rabbia. Una volta rimossi i mattoni, una volta finito lo show delle passerelle istituzionali e delle dichiarazioni, resterà solo il dolore dei familiari e di chi non riceverà mai vera giustizia.
Morti bianche? No, smettetela di parlare di morti bianche. Queste sono morti di mille colori, visibili, tangibili, evidenti. Il sangue delle ferite e delle lacerazioni letali ha un colore intenso. Non c’è nulla di bianco o di trasparente. In questo Paese si muore per lavoro e lo sanno tutti, il lavoro uccide e lo vedono tutti, come un arcobaleno opaco, improvviso e spaventoso che taglia in due il cielo quotidiano di un popolo di morti che camminano. A Barletta come in ogni altro angolo di questo incivile lembo del Sud d’Europa.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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