Un tappeto azzurro e liquido sotto cui si estendono gabbie eterne, definitive, inespugnabili. In superficie, esposte al sole cocente del Meridione, altre gabbie galleggiano pesantemente come prigioni provvisorie, teatro di dolore, rabbia, dove una massa inerme e disidratata attende che il suo destino si compia inesorabilmente. Luoghi di pesca, di leggendarie e truculente cacce alle grandi prede marine, di acqua colorata di rosso, arpioni, reti e pescherecci; luoghi di commercio, di mercantili, di marinai malinconici, di giganti di ferro all’orizzonte a disegnar le proprie sagome sbiadite. Onde, acqua che invade di salsedine ogni cosa, ombre che si muovono facendo esultare i pescatori, attenti, guardinghi, pronti. Una volta le gabbie erano camere di ingresso e di cattura, di morte, per tonni e per altre prede destinate ad alimentare il mercato del pesce, l’economia di intere comunità.
Oggi se pensi alle gabbie dei tonni, salta subito alla mente quell’immagine atroce, scioccante, eloquente di uomini consumati, stremati, che vi si aggrappavano per scampare alla morte, come prede di una società violenta, indifferente, spietata, che respinge e non accoglie, che viola ogni principio di umanità, di solidarietà. Una foto dall’alto e insieme il racconto di un giovane ghanese, che a quelle reti si è avvinghiato nelle ultime fasi di un’Odissea terminata con l’approdo in Italia. Questo è rimasto nella mente di coloro che non dimenticano. Ed in questi giorni, ancora una volta, gabbie pesanti, mastodontiche all’esterno, asfissianti all’interno, dove è parcheggiata la sorte di esseri umani in viaggio, scappati dal nulla, partiti coraggiosamente verso una fortuna sconosciuta. L’ennesima vergogna, un’altra immagine che stona con l’azzurro del mare.
Navi che non trasportano pesce da vendere, ma che “ospitano” corpi riempiti di anime, cuori, speranze e disperazione, trattati come merce da scaricare, merce umana da tenere in stiva per un po’, in mare, in attesa di portarla in un freddo aeroporto e spedirla, in aereo, a destinazione. Indietro, rispedita al mittente, con tanti saluti e con un “no grazie, riprendetevi tutto”. Questa è l’Italia, quella della Lega, di Berlusconi, dei neofascisti, dei tribuni in canottiera, da un lato, dei perbenisti, dei prudenti e dei timidi, dall’altro. I tunisini che hanno reagito al nulla di uno Stato per decenni dominato da un dittatore che le potenze europee hanno foraggiato e coccolato, non sono accetti. Non solo devono andare via, ma non devono nemmeno pensare di esser trattati bene mentre attendono che altri scelgano per loro, in base a regole e regolette becere, inumane, fredde. Nessun segno di civiltà, nessun rispetto della Costituzione.
I centri di detenzione, definiti in modo sacrilego centri di accoglienza, sono colmi e ingestibili, sono teatri di umiliazione e violenza, detonatori di proteste, danneggiamenti, evasioni. E allora, per questo governo, la soluzione sono le navi, dove nessuna organizzazione umanitaria può entrare, per verificare le condizioni di chi vi si trova prigioniero. Navi che scoraggiano proteste interne o tentativi di fuga, perché al di là del ponte c’è solo il mare. Navi che pian piano si svuoteranno per riempire aerei che significano rimpatrio, fine, fallimento di una speranza e di un investimento. Dolore e rabbia. Una rabbia giustificata, che solo le associazioni e i cittadini che da sempre, nel vuoto della politica, urlano e mostrano contro la violenta mortificazione della dignità degli esseri umani e dei loro diritti inalienabili, ingabbiati tra le mura ferree di una gigantesca carena.
Volti silenziosi e stanchi, i segni indelebili di quelle fascette di plastica che legano i polsi dei migranti, così come quelle manette che anni fa, a Lampedusa, spiccavano luccicanti tra le braccia degli africani in fila all’ingresso dell’aereo pronto a rispedirli in Libia, ossia all’inferno (chissà se lo ricorda il caro e moderato ex ministro Pisanu…). Quello che avviene a Palermo, a Porto Empedocle, a Lampedusa, a Pozzallo, nelle navi, nei centri di detenzione, non è solo lo schiaffo più pesante al volto di una democrazia, ma è soprattutto un pugno paralizzante alla spina dorsale di un’intera società che prima o poi dovrà esplodere sotto la rabbia di chi, ad un certo punto, smetterà di accettare e di limitarsi a resistere.
Ad ogni situazione corrispondono dei limiti. L’Italia li ha travalicati già abbondantemente, dai tempi degli albanesi degli anni ‘90, delle decine di migliaia di persone “sistemate” dentro lo stadio di Bari ed alimentate dall’alto, lavate dall’alto, mentre le famiglie portavano i bambini a vedere e fotografare quella novità, “quell’evento nuovo”, quell’umanità sconosciuta ammassata tra gli spalti ed il prato. Se ancora in Italia non è esplosa la rabbia è perché qualcuno, a Sud di Lampedusa, ha più capacità di noi di comprendere il prossimo, di solidarizzare e di non etichettarlo come “straniero”, e perché, per fortuna, questo Paese, ai timidi, agli spietati, ai prudenti e agli assassini di Stato, contrappone le persone di buona volontà, gli idealisti, i giusti e tutti coloro che sanno ancora tendere una mano. Gli stessi che davanti a quel mare e a quelle gabbie di ferro protestano e si incazzano ancora.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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