Cecilia Sala ha trascorso Natale e Capodanno in una cella di pochi metri, a Teheran, colpevole unicamente di avere svolto la sua professione, quella di giornalista, e di essersi trovata sul suolo iraniano al momento sbagliato, al momento, cioè, nel quale veniva arrestato, in Italia, Mohammad Abedini. Cecilia Sala è stata l’ultima di una lunga serie di ostaggi: reporter, volontari, attivisti, gente che, per ragioni ideologiche o professionali, si trovava all’estero ed è stata utilizzata, da organismi statali o parastatali, come pedina di scambio, per ottenere visibilità o altri vantaggi. Nei nuovi scenari di conflitto internazionale, di tensioni diplomatiche, di alleanze brevi o durature, ci si continua ad avvalere di uno strumento d’antan: il sequestro. Ma ciò che, negli ultimi anni, colpisce di queste vicende, il loro comune denominatore, è la sottile, ma ben percepibile, atmosfera di irritazione, talvolta di risentimento, che si insinua nei commenti, sia quelli da bar, che quelli sui social, nei confronti degli ostaggi che – ahinoi – devono essere liberati e riportati in patria.
Cecilia Sala, ad esempio, è stata solo l’ultima delle vittime del “tweet scavenging”, una pratica che mira a ricostruire – grazie all’ausilio del web che archivia, ma mai dimentica – tappe di vita, esternazioni, post e prese di posizione ed il cui risultato, se non l’obiettivo, è quello di screditare chi la subisce. E così, mentre Sala si trovava rinchiusa – trattenuta da uomini che, in farsi, l’accusavano genericamente di avere commesso “tanti illeciti in tanti luoghi”, privata persino dei suoi occhiali da vista – qualcuno sui social ironizzava sul fatto che, invece, disponesse di un iPad per seguire i notiziari italiani, qualcun altro dubitava dell’attendibilità della accorata telefonata ai genitori, altri ancora evocavano, dall’alto dei loro scranni virtuali, tesi complottiste.
E mentre una giornalista – troppo spesso si è trascurato che Cecilia Sala si trovasse in Iran per lavoro e non in gita scolastica – veniva messa a tacere ed isolata, abbandonata all’incertezza sul proprio futuro, sui social italiani sbucavano immagini incongruenti: di una giovanissima Cecilia apparsa in un video musicale del tanto discusso Tony Effe, di un suo vecchio post – talmente risalente da essere stato scritto da una Cecilia ancora minorenne – sulla vicenda dei Marò, e di suo padre. Sul padre, anzi, sui genitori di Sala sono state digitate considerazioni su considerazioni: nomi, cognomi, professioni, ruoli ricoperti nel corso dei decenni, cariche istituzionali, incarichi e menzioni, magari anche codici fiscali e gruppo sanguigno. L’obiettivo? Sottolineare che Cecilia Sala è figlia di Renato e, per proprietà transitiva, di Antonio Tajani, della JP Morgan, di Monte dei Paschi di Siena, forse anche dello Stato di New York e delle Big Four.
E, da lì, difesi dall’impalpabile scudo del mondo virtuale, spesso infarciti di errori grammaticali, commenti maligni a profusione: Cecilia è stata descritta come una collaborazionista del sistema, una ragazzina con l’hobby del giornalismo, ben ammanicata, con amicizie altolocate, erede di un potente banchiere; si è insinuato che per questo, e solo per questo, abbia goduto di agevolazioni e privilegi, di una celere liberazione, si è suggerito, anzi, di non rappresentarla né come una martire né una eroina. E, ancora, facendo eco ai commenti indirizzati alle vittime di violenza, si è scritto che Cecilia “se l’è cercata”, che nessuno l’aveva obbligata a visitare l’Iran, che, a quel punto, l’Italia se ne lavasse pure le mani. Sono anche apparse considerazioni trite e ritrite, di quelle che fanno capolino ad ogni sospetto che si debba versare un riscatto ai rapitori: da Giuliana Sgrena a Greta Ramelli e Vanessa Marzullo (all’epoca, definite incoscienti da salvare), in molti hanno pubblicamente auspicato che non si trattasse di soldi pubblici, i famosi soldi dei contribuenti.
La prigionia e la successiva liberazione di Cecilia Sala, infine, sono state utilizzate per alimentare il dibattito politico: c’è chi ha elogiato il governo e chi, al contrario, ne ha sottolineato la sudditanza al potere economico, specie se statunitense; la giornalista, dal canto suo, è stata variamente ascritta alle compagini di destra e di sinistra, desumendo la sua appartenenza politica dal suo albero genealogico e dalla sua ubicazione geografica. Ma l’acme del raccapriccio è, probabilmente, il confronto tra tragedie: sui social, v’è stato chi ha lamentato la maggiore pietà per la detenzione relativamente breve sofferta da Sala, rispetto a quella rivolta alle vittime di altri recenti conflitti e massacri. Si tratta di un assunto che muove dall’implicita considerazione che l’empatia umana abbia dei limiti, che possa essere erogata solo con il contagocce e che il manifestarla verso qualcuno o qualcosa implichi l’assoluto veto di esprimerla per chi la pensa – o è tacciato di pensarla – diversamente.
D’altronde, è un assunto coerente con quanto accaduto mentre Cecilia era in quella cella di Teheran: quel lento, ma inesorabile processo di denigrazione della vittima, quell’attenzione mediatica ai soliti fantomatici complotti, quella ricerca di meriti e demeriti, tutto è apparentemente collegato alla necessità di allontanarsi emotivamente dalla vicenda. Perché, se invece di Cecilia Sala, giovane donna che svolgeva il suo lavoro e che si è trovata invischiata in eventi di portata internazionale, ci si figura una privilegiata, una figlia di papà, collusa con la finanza e paladina degli Stati Uniti, diventa più semplice, indubbiamente più lieve, quel dibattito che è proprio dell’ormai frequentatissimo mondo virtuale.
Persino l’universo femminista, stavolta, ha taciuto perché, in una logica ormai dominata dalla polarizzazione, Cecilia Sala non era facilmente catalogabile, non era facilmente utilizzabile quale vessillo dell’una o dell’altra cifra del sistema binario. Nella realtà di oggi, appare smarrita la complessità del pensiero e, soprattutto, appare svanita ogni autentica empatia: la prima consentirebbe di comprendere, ad esempio, che una giornalista imprigionata significa la perdita di una piccola fetta di libertà per ciascuno di noi; la seconda, l’empatia, ci consegnerebbe, plausibilmente, una società migliore. Ed è proprio la sua assenza che è assurdo dover ormai prendere in considerazione.
Sophie M. -ilmegafono.org
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