Le parole hanno sempre un peso specifico, come il silenzio di chi le suggerisce lasciando ad altri il compito di pronunciarle. È un disegno subdolo, dove il mandante lascia il ruolo di messaggero al servo di turno. Se il messaggio non va a buon segno, il mandante troverà sempre il modo di lavarsene le mani e cavarsela, lasciando il servo a farsi carico del fallimento e ad uscire di scena. Quelle di Andrea Delmastro Delle Vedove, attuale sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, sono solo un atto della commedia che il governo di Giorgia Meloni porta in scena al “Teatro Italia”, davanti ad una platea sempre più assente e anestetizzata. “L’idea di far sapere ai cittadini come noi trattiamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia”. Attorno a queste parole, pronunciate alla presentazione dei nuovi mezzi a disposizione della Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti, c’è stato per giorni il silenzio-assenso del governo intero.
Solo dopo qualche giorno, Giorgia Meloni ha provato a minimizzare con poche frasi di patetica circostanza: “Ha detto che gode nel vedere non respirare la mafia, se questo vi scandalizza ne prendo atto. Io non sono scandalizzata dal fatto che qualcuno dica che questo governo non vuole far respirare la mafia”. Difficile credere davvero a questa giustificazione. Grave e significativo il silenzio del ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato e procuratore aggiunto, che non può non aver capito la gravità delle affermazioni del suo sottosegretario.
Restiamo su questo atto e sul suo protagonista, della commedia parleremo più avanti. La storia politica di Andrea Delmastro Delle Vedove non si svela solo con questa sua uscita. Aprile 2020, piena emergenza Covid, carcere di Santa Maria Capua Vetere: nelle celle piccole e sovraffollate scoppiano i primi casi di contagio, mancano i dispositivi di protezione individuali e i detenuti protestano rifiutando di rientrare nelle celle, chiedono un confronto con la magistratura. Il 5 aprile la protesta rientra ma, il giorno dopo, la polizia penitenziaria costringe i detenuti ad uscire dalle celle e ne segue una mattanza di violenza inaudita, descritta da Luigi Romano, avvocato e presidente di Antigone Campania, nel libro “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane” (Monitor edizioni, 2021). Il 15 giugno 2020 il deputato Delmastro è il primo firmatario dell’interpellanza parlamentare con cui i deputati di Fratelli d’Italia chiedono un encomio solenne per i poliziotti penitenziari coinvolti.
Per quei fatti furono processate 105 persone – agenti e funzionari – accusati di tortura, lesioni, falso, calunnia. 77 furono sospesi dal servizio, per altri ci fu l’assoluzione e un avanzamento di carriera. La diffusione delle immagini riprese dalle telecamere della videosorveglianza costrinse però, un anno dopo, l’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ad intervenire. Così, nel luglio 2021, la ministra stessa riferirà alla Camera di “una violenza a freddo con un uso smisurato e insensato della forza, perché le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona, pietra angolare della nostra convivenza civile”.
Fin qui il ruolo di Andrea Delmastro Delle Vedove, l’avvocato inquisitore a cui piace ricordare di essere “garantista nel processo e giustizialista nell’esecuzione della pena”, logica che incarna fedelmente lo spirito con cui la destra fascista che lo ha cresciuto interpreta la parola giustizia. C’è tutta l’essenza della loro idea di “Legge e Ordine”, del loro concetto di Stato e democrazia. Il 10 giugno 1924, anche Giacomo Matteotti venne caricato su un’automobile, nera come le camicie degli squadristi fascisti di Amerigo Dumini. Il suo corpo fu ritrovato solo il 16 agosto. Facile pensare che anche Dumini provò un’intima gioia nel pensare che chi era seduto dietro non riuscisse a respirare. Perché in effetti stupirsi se un fascista di oggi, cento anni dopo, si esprime in questo modo?
Ma veniamo alla commedia, di cui il signor Delmastro è solo una comparsa. La legge 110 del 14 luglio 2017 ha introdotto nel Codice penale italiano il reato di tortura e di istigazione alla tortura. Punisce chi, “con violenze o minacce gravi, o agendo con crudeltà, causa sofferenze fisiche o un trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza”. È una normativa ancora più specifica di quanto stabilito dalla Convenzione Onu del 1984 e considera il reato ancora più grave se compiuto da un pubblico ufficiale in violazione, o abuso, dei suoi doveri. Poco più di un anno fa, Fratelli d’Italia, casualmente lo stesso partito del sottosegretario Andrea Delmastro, proponeva una legge per abrogare il reato di tortura: prima firmataria Imma Vietri. Secondo i firmatari della proposta si sosteneva, e si sostiene tuttora, che le forze di polizia possono legittimamente utilizzare la forza nell’esercizio delle proprie funzioni.
Tutto si può dire sulle forze dell’ordine, ma non che a polizia e carabinieri manchino le tutele legislative. Da almeno vent’anni la richiesta di introdurre i codici identificativi per gli agenti in servizio viene disattesa e ignorata dal Parlamento e dai governi. Una delle prime proposte presentate alla Camera risale al settembre 2001, firmatari Elettra Deiana, Giuliano Pisapia e Graziella Mascia, all’epoca deputati di Rifondazione comunista. Occorre forse ricordare le coperture che hanno contrassegnato gli abusi delle forze dell’ordine dai giorni del G8 Genova nel 2001 in avanti?
Fa sempre uno strano effetto quando le istituzioni usano argomenti e toni intimidatori, minacciosi. Sembra però che la destra al governo del Paese abbia scelto questa strada. Le parole di Delmastro non sono un’esternazione casuale, personale e fine a se stessa, sono piuttosto il segnale di un governo che mira alla trasformazione dello Stato democratico in qualcosa che sempre più si avvicina al modello Ungheria, la tanto apprezzata “democrazia illiberale” di Viktor Mihály Orbán, dove tutto è controllato: dalla magistratura all’informazione. Una nazione nella quale al dissenso viene impedito di “respirare”. Per riuscirci è necessario creare prima le condizioni: la “fascistizzazione” della società, base di ogni progetto totalitario, richiede il controllo sociale e la creazione di un consenso che passa necessariamente dalla repressione del dissenso.
Le parole di Delmastro affiancano quelle di altri esponenti del governo: il vice-premier Matteo Salvini deve giocare la sua partita davanti ai giudici di Palermo, e per vincerla deve screditare i giudici che applicano la legge; il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi deve giustificare i lager di Stato in Albania e in Italia e i manganelli sugli studenti; il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara scarica sui migranti la colpa delle violenze sulle donne. Occorre creare un nemico e costruire il castello della paura, le cui fondamenta si appoggiano anche su quei “vetri oscurati” che regalano la gioia al sottosegretario Delmastro, perché è dietro quei vetri che qualunque cosa accada verrà nascosta. Serve al ministro Nordio, per scardinare quell’ordinamento giuridico di cui lui stesso ha fatto parte per decenni. Serve a Ignazio La Russa, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, che ogni giorno prova a riscrivere la storia recente e passata attaccando la Costituzione antifascista della Repubblica.
Allora si punta il dito: contro i lavoratori che scioperano, i collettivi antifascisti, gli studenti e i cittadini che scendono nelle piazze, indicati come “zecche comuniste da rinchiudere in galera”, contro i giudici che non difendono il governo, contro l’informazione libera e non allineata, contro le ONG e i migranti. La regia della commedia è tutta nelle mani di Giorgia Meloni, che sorride, ammicca e gioca al piccolo statista, pronta a scaricare sui suoi ministri l’eventuale fallimento del progetto. Ma “tutti gli uomini del Presidente” è stata lei a sceglierli e, anche se in pochi glielo ricordano, un giorno dovrà renderne conto. Sono tante le analogie con il clima che questo Paese già respirava negli anni ‘70, quando le connivenze e le complicità del potere di quel tempo – servizi deviati, prefetti e governi – hanno costruito quella “strategia della tensione” che ha seminato morte e dolore nel Paese.
Quegli anni hanno sviluppato degli anticorpi, e quegli anticorpi sono ancora vivi, esistono e hanno memoria. È di loro che questo nuovo corso ha paura. La memoria si trasmette, si diffonde anche fra le generazioni più giovani, e quei ragazzi che oggi sfilano e sfidano i manganelli hanno una ragione in più per lottare rispetto a chi sfidava il potere negli anni ‘70: la consapevolezza che il loro futuro gli è stato rubato. È questo il pericolo più grande per la “democrazia illiberale” che i fascisti di oggi stanno preparando, perché se la consapevolezza cammina insieme alla rabbia può mischiare tutte le carte sul tavolo e vincere ogni partita. Ma questo Paese è in grado di sostenere e condividere questa consapevolezza?
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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