I mutamenti irreversibili degli ecosistemi condannano gli animali che li popolano a un concreto rischio di estinzione. Un problema che colpisce molte specie e di cui si parla sempre troppo poco quando si affronta il tema delle conseguenze del cambiamento climatico. Chi ne parla spesso, invece, attraverso indagini, report, denunce e campagne, è sicuramente Greenpeace che, in vista del Natale, lancia una nuova iniziativa dedicata alla salvaguardia degli animali in estinzione. Si intitola “C’era, una volta. La fiaba più bella è che continui a esserci” ed è la campagna di raccolta fondi di Greenpeace che, in occasione del Natale 2023, vuole riscrivere il finale delle storie di alcune specie simbolo di questo problema drammatico. Negli ultimi cinquecento milioni di anni si sono verificate cinque estinzioni di massa, secondo gli scienziati siamo nel mezzo della sesta (“l’estinzione dell’Antropocene”), che si distingue dalle precedenti per un aspetto piuttosto importante, vale a dire il ruolo che gli esseri umani hanno avuto nel provocarla.
Come sottolinea l’associazione ambientalista, le attività antropiche (distruzione degli ecosistemi, politiche agricole scellerate, deforestazione, inquinamento) sin dal XIX secolo, cioè in piena Rivoluzione industriale, “hanno iniziato a modificare gli equilibri della natura e messo sempre più a rischio le specie animali. Una strage silenziosa che ancora oggi non accenna a fermarsi”. Greenpeace spiega l’importanza di proteggere gli animali in via di estinzione, che una volta scomparsi non possono più tornare indietro: “Le conseguenze sono disastrose perché ogni animale ha un ruolo specifico sull’ecosistema che abita. La sua scomparsa può compromettere per sempre l’equilibrio di quell’habitat, perché l’estinzione di una specie lascia un ruolo vacante che non sempre un’altra può colmare (basti pensare ai predatori dai quali dipende il contenimento delle specie animali di cui si nutrono)”. L’estinzione, pertanto, produce un “effetto valanga” su tutte le altre specie animali e vegetali.
Nella sua campagna, l’organizzazione ambientalista pone al centro quattro specie simbolo: la tigre di Sumatra, la tartaruga marina, l’orso polare e le api. La tigre è il più grande dei cosiddetti “grandi felini”. Purtroppo, ne rimangono poche migliaia e la situazione è ancora più critica con riferimento alle 6 sottospecie di tigre, tra cui quella di Sumatra. Essa si trova esclusivamente sull’isola di Sumatra, nell’Indonesia occidentale. La sua sopravvivenza è indissolubilmente legata a quella del suo habitat, cioè le meravigliose foreste di Sumatra. “L’espansione, legale e illegale, delle piantagioni per la produzione di olio di palma e per la produzione di cellulosa è una delle principali cause degli incendi che da anni devastano le foreste indonesiane, causando perdita dell’habitat di molte specie endemiche, ma anche gravissimi problemi di salute alla popolazione. Si ritiene che in natura restino solo poche centinaia di tigri di Sumatra e il rischio di vederle diminuire ancora è molto elevato, se non si prenderanno misure per tutelare le foreste e limitare l’impatto distruttivo delle multinazionali che antepongono il profitto a tutto” (clicca qui per contribuire alla campagna dedicata).
Per quanto riguarda la tartaruga marina, invece, la Caretta caretta è la specie più comune del Mediterraneo. Si tratta di un rettile che si è adattato alla vita in mare: le sue zampe si sono trasformate in “pinne” e naturalmente ha i polmoni e non le branchie, per questo ha bisogno di tornare in superficie per respirare, anche se è capace di immergersi in apnea fino a profondità notevoli. Essa è tra le specie più minacciate dall’essere umano: “plastica, attrezzi da pesca abbandonati, impatti con imbarcazioni e cambiamenti climatici sono i suoi principali nemici”. L’innalzamento delle temperature delle acque ha inciso sulle sue abitudini riproduttive, costringendola a spostare il suo habitat di nidificazione sempre più verso il Nord. “Ma sono la plastica e altri rifiuti che contaminano il mare – ricorda Greenpeace – a rappresentare per lei una vera e propria trappola mortale. La tartaruga infatti scambia i sacchetti di plastica che galleggiano per delle meduse, di cui è estremamente ghiotta. Cibarsi di plastica rischia di farla soffocare o morire di denutrizione. Come la tartaruga anche altre specie marine subiscono gli effetti devastanti dell’inquinamento da plastica. Sono ben 700 le vittime tra le specie a rischio! (clicca qui per contribuire alla campagna dedicata)”.
L’orso polare è il più grande carnivoro terrestre esistente, un eccellente cacciatore adattatosi alla vita in climi estremi. Sembra una creatura forte, invincibile, eppure da tempo esso rientra nel triste elenco delle specie a rischio di estinzione. Il suo habitat, le grandi banchise di ghiaccio, non smette di sgretolarsi a causa dei cambiamenti climatici. “Gli orsi cercano di raggiungere i ghiacci, sempre più lontani dalla costa, perché cacciano le foche ai bordi del ghiaccio galleggiante. Se i ghiacci si ritirano, la distanza da coprire a nuoto diventa proibitiva e per questi animali, per quanto adatti alla vita in mare, il rischio di morire di fame e annegare diventa concreto”. Ciò mette a rischio la sopravvivenza di uno degli animali simbolo dell’Artico (clicca qui per contribuire alla campagna dedicata). “Sappiamo che il cambiamento climatico – spiega Greenpeace – è la causa principale dello scioglimento del ghiaccio marino e conosciamo anche i responsabili di questa crisi: colossi dell’energia fossile che continuano ad inquinare e a estrarre gas, petrolio e carbone. La crisi climatica non è un’ipotesi. È un fatto inequivocabile che sta accadendo ora e che ha cause e responsabilità ben precise. E conseguenze altrettanto visibili, tangibili”.
Infine, le api. L’ape mellifera è un insetto dotato di un’intelligenza straordinaria, detta intelligenza sociale. È in grado di organizzarsi in società in cui ogni membro ha il proprio compito e tutti collaborano al benessere dell’alveare. Questo insetto è straordinario anche perché l’unico capace di produrre un alimento commestibile per l’essere umano: il miele. Esistono anche le api selvatiche o solitarie, ovvero api che costruiscono veri e propri nidi e non alveari: nidificano ad esempio in cavità nel legno o ricavano il loro riparo scavando gallerie nel terreno. Anche le api solitarie, così come le api da miele, si nutrono di polline e nettare, e visitano solo alcuni generi di piante. Visitare solo alcune specie di fiori, però, le rende anche molto più delicate (clicca qui per contribuire alla campagna dedicata). “A mettere in pericolo alcune specie di api – afferma Greenpeace – sono due gravi minacce: l’attuale sistema di agricoltura industriale e il cambiamento climatico. Pesticidi chimici, monocolture, perdita di biodiversità, pratiche agricole distruttive stanno riducendo sensibilmente il numero delle api, che oggi devono affrontare un altro killer: la crisi climatica sta modificando il ciclo naturale degli ecosistemi, rendendole più vulnerabili e meno produttive”.
Le storie di queste specie sono drammatiche, il rischio di estinzione è una condanna atroce che pende sulla loro testa e su quella di altre specie. Insieme, però, si può provare a scrivere una storia diversa, a fare in modo che il “C’era una volta” non riguardi gli animali, ma tutti i fattori e gli impatti negativi che ne distruggono gli habitat e ne mettono a rischio l’esistenza. Invertire la rotta è ancora possibile e tutti noi, con i nostri sforzi e il nostro piccolo contributo, possiamo diventare parte di questo importante cambiamento. A partire da subito.
Redazione -ilmegafono.org
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