Si dice spesso che il tempo è il migliore dei medici, in grado di guarire ogni dolore, eppure gli anni trascorsi non hanno potuto in alcun modo anestetizzare la sofferenza di quanti hanno perso i propri cari in quel, non più tanto recente, 23 maggio 1992. Non sono stati sufficienti diciannove anni per asciugare il sangue versato, per coprire l’acre odore dell’esplosione, per cancellare uno dei più drammatici e vergognosi capitoli di storia contemporanea del nostro Paese. Un sabato pomeriggio passato alla storia perché, intorno alle 18, la mafia, facendo esplodere 500 kg di tritolo lungo l’autostrada Palermo-Catania, tolse la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie, Francesca Morvillo, ed a tre dei suoi sei agenti di scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo. Una vera tragedia che ha inferto un durissimo colpo alla giustizia italiana ed ha sconvolto tutta l’Italia onesta che riponeva in Giovanni Falcone ed in Paolo Borsellino la propria speranza di veder finalmente debellata l’egemonia mafiosa. Un attentato di indubbia matrice mafiosa ma nel quale non è mancata la gravissima complicità dello Stato.
Non entriamo nel merito di indagini ancora in corso, del cosìdetto “papello” che sembrerebbe contenere i capisaldi dell’alleanza tra il nostro Stato ed i criminali che in quegli stessi anni inondavano di sangue innocente le strade siciliane. Molto più banalmente ci riferiamo alla colpevole assenza dello Stato al fianco di chi lottava per servirlo. Giovanni Falcone (e solo due mesi dopo anche Paolo Borsellino) è stato ucciso perché lasciato solo. Le manovre per denigrarlo ed isolarlo, rendendolo sostanzialmente meno “pericoloso”, erano già iniziate nel 1989 quando, in occasione del fallito attentato all’Addaura, si arrivò a sostenere che fosse stato organizzato dallo stesso magistrato per “farsi pubblicità”. Persino il suo incarico a dirigere la sezione Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, che doveva essere una promozione, fu, con ogni probabilità, un tentativo di allontanarlo da Palermo e di fermare le sue indagini sempre più scomode.
Ipotesi confermata dal suo amico Paolo Borsellino il quale, il 25 giugno del 1992 (pochi giorni prima dell’attentato in cui perse la vita), affermò che “Giovanni Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”. Sono passati 19 anni, molte persone hanno perso la vita servendo lo Stato e la giustizia eppure non si è ancora imparato a disinnescare il più grande pericolo per i magistrati antimafia: la macchina dell′isolamento.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a svariati tentativi di delegittimare l’operato dei volti più noti della lotta alla mafia: dalla pioggia diffamatoria contro Gioacchino Genchi, il poliziotto- consulente informatico accusato di accessi abusivi (ma, sebbene a questa notizia sia stata “stranamente” data poca pubblicità, recentemente assolto in primo grado) ai più recenti tentativi denigratori nei confronti di Antonio Ingroia, sostituto procuratore a Palermo dal 1992 ed attuale procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia, contro il cui operato si sta strumentalizzando l’intera vicenda “Ciancimino jr”. Anche quest’anno, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, sono state organizzate innumerevoli attività commemorative, ma sarebbe forse opportuno unire al cordoglio ed al ricordo un’opportunità di crescita imparando finalmente a disinnescare questa pericolosissima macchina del fango e della solitudine.
Come disse lo stesso Giovanni Falcone: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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