Pochi giorni ancora. Poi cadrà il velo sulla polvere e sull’ipocrisia di un Paese ai margini di se stesso e della propria storia. Il Paese dei sondaggi e del Gattopardo, della nostalgia per un ventennio che cova ancora sotto le ceneri, il Paese delle stragi di Stato e del G8 di Genova, dei faccendieri che ridono di fronte ad un terremoto, dei morti sul lavoro. Il Paese delle trattative, con la mafia e con chiunque sappia mettere sul piatto qualcosa in cambio di qualcos’altro, il Paese capace di dimenticare il proprio passato di migrante e di chiudere i porti in faccia a chi arrivava a Lampedusa in lacrime, stremato e con le fotografie dei figli sul telefonino. Pochi giorni. Poi, come ci raccontano i sondaggi che da mesi, incessantemente, pilotano i voti e condizionano i cittadini, quella destra che non rinnega nulla del suo passato avrà le chiavi di una casa che non ha mai chiuso davvero la porta al suo passato e che, con quel passato, non ha mai voluto davvero fare i conti. Amaro pensare che esattamente cento anni fa quel passato marciava su Roma e scavava il precipizio.
I sondaggi qualche volta sbagliano, ma qualcosa dicono sempre: per esempio ci dicono che la politica si è nascosta senza nessuna vergogna e nessun senso di colpa ma, anzi, mostrando tutta la sua arroganza e la sua ipocrisia. Si è ristretto terribilmente il cerchio di coloro che ancora credono che la “Politica” sia, prima di tutto, un’idea di vita dove l’etica e la moralità possano e debbano avere piena cittadinanza. Oggi i mulini a vento contro cui combatteva Don Chisciotte della Mancia sono davanti a noi e assomigliano sempre più a dei giganti invincibili.
Le pale di quei mulini hanno tante facce: qualcuna non ha mai nascosto il suo ghigno violento e rozzo, seminando a piene mani, e per anni, razzismo e disprezzo verso gli ultimi della fila, e una volta raccolto il testimone di un ventennio nero ha cercato e trovato complici e alleati, costruito un nemico. Quel ghigno violento e rozzo nasconde anche l’assoluta povertà e inadeguatezza di programmi politici incapaci di andare oltre al “nazionalismo“ esasperato e la caccia al migrante. Dall’altra parte del tavolo altre facce hanno invece scelto di indossare una maschera che, con il tempo, ha permesso loro di contribuire ad avvelenare il pozzo: scendendo a compromessi di ogni genere, accettando, condividendo, cedendo un metro di terreno alla volta. Ma le maschere non resistono al tempo e cadono un giorno alla volta, scivolando sul terreno viscido su cui hanno camminato. Allora è giusto guardare indietro, ascoltare la parola della memoria per capire come si è arrivati a questo punto, per ricordare come da tempo i Partiti abbiano consegnato il Paese e sé stessi ai trafficanti della politica, al potere privato, alla finanza e ai mercati.
Ogni metro di quel terreno è stato sottratto alla società civile, al mondo del lavoro, ai diritti civili, alla democrazia e, ogni volta e per ogni metro ceduto, hanno raccontato che era necessario e inevitabile. Quel metro di terreno oggi è diventato una prateria, dove per troppe persone è diventato impossibile difendersi dagli sciacalli. Quando si accetta di sedere ad un tavolo occorre sempre osservare chi sono i commensali che siedono accanto, ricordare che se si è seduti a quel tavolo è perché qualcuno si è fidato, ha creduto in un’idea, in un progetto. Saper dire di no ogni volta che serve è l’unica strada per essere degni della fiducia ricevuta. Quando questo non succede, quando si accetta di sedere allo stesso tavolo di faccendieri e trafficanti della politica e se ne condividono le scelte, si diventa complici.
Tutto questo è accaduto in questo Paese. Il fatto che questo sia avvenuto anche in altri Paesi di un’Europa sempre più piegata su se stessa e sulle proprie responsabilità non è una consolazione. Pochi giorni ancora, poi, quello Stato così assente e lontano dai suoi cittadini ci chiederà di calare il velo sulla sua stessa polvere e di coprirla. Lo farà servendosi di una legge elettorale insulsa e vergognosa, ma che è stata scritta e firmata proprio da chi ha indossato per anni la maschera e ceduto metri di terreno e che oggi la considera sbagliata. Però non ha mai chiesto scusa per quella legge, non ha mai provato a cambiarla, né ha ancora chiesto scusa per nessuno dei metri di terreno ceduti. Sulla base di quella legge si voterà e, comunque vada, sarà uno spartiacque sul futuro di questo Paese, perché ad una legge elettorale vergognosa si aggiunge la massiccia riduzione del numero dei parlamentari. È giusto ricordare che anche questa riforma è stata votata e approvata in parlamento dallo stesso partito che ha scritto quella legge elettorale.
Il voto è un diritto, anche quando viene calpestato da una classe politica indecente. Un diritto che fino al 1861 era riservato ai soli cittadini maschi di elevata condizione sociale. Passeranno decenni da quella data prima di diventare suffragio universale – sempre per i soli maschi – e solo nel 1946 verrà riconosciuto il diritto di voto anche alle donne. Quel diritto diventa una scelta, di dignità e di cuore. Se esiste un punto di rottura fra la classe politica e il Paese reale, in particolare con le generazioni più giovani, quel punto ha una data precisa: luglio 2001. Sulle strade di Genova la politica ha scelto di staccare la spina con quella generazione che chiedeva con forza una società diversa. Quella spina è stata staccata con violenza e in quei giorni tutto è cambiato. Ora, a quella generazione e a quelle successive, ai cittadini tutti, si chiede il “voto utile”. Chi, oggi, parla di “voto utile” lo fa soprattutto per mascherare la pochezza, se non la mancanza, di un programma vero, capace di andare in direzione “ostinata e contraria” rispetto a quella che è stata fino ad ora la direzione seguita da questo Paese. Servono coraggio e dignità per provare a guardarsi allo specchio e fare un profondo esame di coscienza.
C’è un mondo che cambia e che ribolle come una pentola sul fuoco delle guerre e dei conflitti etnici, percorso da migrazioni bibliche che fuggono da guerre, dittature e carestie. Non basta mettere un coperchio sulla pentola, serve qualcosa di più: serve un’idea diversa di società e di umanità. Troppo facile, e in un certo senso assolutorio, pensare che nulla possa cambiare: la storia ci insegna invece che le cose possono cambiare, è già successo in altre epoche e in altri momenti. C’è sempre un prezzo da pagare al cambiamento, è inevitabile ma necessario. E poi, se non ora quando? Cos’altro ancora deve succedere perché l’idea che così non è possibile continuare prenda finalmente e veramente forma? Il modello di società in cui ci siamo cullati per troppo tempo non è solo un modello sbagliato, è molto di più: è un modello che non ha futuro.
A qualcuno interessa ancora il futuro? Se la risposta è sì, allora forse è ancora possibile giocare la partita e provare a cambiare il risultato. Ma non basta cambiare la classe dirigente, la classe politica, perché quella classe non è lì per caso: è lì perché è stata scelta, è stata voluta e votata. E allora qualcosa deve cambiare soprattutto alla base della piramide, perché nessun cambiamento arriva dal vertice per grazia ricevuta. C’è un punto della strada di ognuno dove bisogna addentrarsi fino in fondo, perché è lì che si incontrano le contraddizioni, i dubbi, le incertezze e le paure. Anche le sconfitte, certo, ma ogni sconfitta insegna che c’è sempre almeno un punto da cui è possibile ripartire. È in quel punto della strada, in quella “Terra di nessuno”, che una volta calata la polvere alzata dalle tante certezze altrui sarà possibile riprendere un cammino che non lascia nessuno ai suoi margini.
Non occorre salire sui carri in corsa che sembrano vincenti, quella corsa salta sempre troppe fermate dove qualcuno aspetta da troppo tempo, qualcuno che ha fame di diritti e di giustizia, di lavoro e di cultura, di ambiente e di democrazia, di economia e non di finanza, di umanità. I cambiamenti si costruiscono con fatica e tenacia, un giorno alla volta.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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