Il referendum in Lombardia e in Veneto si è calato sulla scena politica con un risultato scontato sin da principio. Il quesito era semplice. Un po’ come chiedere se preferisci un cioccolatino o un ceffone. Più che di vera e propria discussione, infatti, si è trattato della ricerca di un plebiscito popolare. Altro non poteva essere, dato il suo carattere consultivo e, sostanzialmente, la sua inutilità. A dimostrarlo è il fatto che la richiesta di autonomia è costituzionalmente prevista (così come richiamato nel requisito medesimo) e che l’Emilia Romagna, per dirne una, sta giusto giusto avviando il medesimo processo (senza referendum).

E allora perché farlo? La spiegazione politica affonda le radici nel background culturale dei due governatori, Maroni e Zaia. Il primo, dai prematuri trascorsi sinistrorsi, è leghista della prima ora. Allievo, politicamente, dell’Umberto Bossi dell’indipendentismo padano. Uomo delle istituzioni, tendenzialmente più pacato e accorto nei modi rispetto alla schiera folkloristica dei compagni di partito.

Il secondo, nato e cresciuto politicamente in Veneto, anche lui ex ministro, è dotato di cristallina abilità politica se è vero che, ad inizio anno, nientemeno che Berlusconi lo indicava come leader del centro-destra. Il punto in comune sta, in fondo, nel rappresentare il “passato” della Lega e il suo spirito, ancorché ormai edulcorato, indipendentista. D’altronde, nello Statuto della Lega Nord si legge: “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania […] è un movimento politico confederale […] che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.

Insomma, occorreva farlo per dare una risposta concreta a una base “storica” forse stanca del nazionalismo salviniano. Inoltre, serviva un plebiscito, serviva avere forza e dimostrarlo, esattamente come il fallimentare e grottesco tentativo renziano del 4 dicembre. Eppure i due governatori gestiscono situazioni molto diverse: da una parte, la Lombardia lanciata in Europa da Milano e, dall’altra, il Veneto post crisi-economica, più povero e più rissoso. I due governatori rappresentano anche le due principali anime fondative della Lega Nord, quella veneta e quella lombarda: la prima è sempre stata molto forte e molto radicata sul territorio, mentre la seconda sconta da sempre la forza del centro-destra lombardo (per dirne uno, proprio il Caimano di Arcore).

Il risultato del referendum certifica esattamente questa situazione e, se letto attentamente, dà molte risposte. Innanzitutto, l’affluenza. L’affluenza in Veneto si attesta al 57% mentre in Lombardia appena al 38%. Per il Sì, percentuali bulgare in entrambi i casi, con i favorevoli che si attestano al 98% in Veneto e al 96% in Lombardia (ma dai!). Pesa, sulla Lombardia, il dato di Milano, con una misera partecipazione del 31%.

Se nelle terre del prosecco si può quindi cominciare a stappare bottiglie, forse al palazzo della Regione Lombardia occorre star più cauti. Quello che doveva essere un bagno di folla si è trasformato, tutto sommato, in una tiepida approvazione. Ma questo voto, oltre a porre prospetticamente Maroni ai margini con un autogoal difficile da recuperare (se non con una gestione ottima del processo di richiesta di maggiore autonomia), rischia di creare qualche problema in casa Lega, anche se in pochi lo sottolineano. Il sospetto cioè che, in fin dei conti, il colpo furbo di Zaia rischia di minare concretamente la leadership di Salvini.

Primo aspetto interessante: Zaia è veneto e Salvini è lombardo, le due anime un tempo divise che hanno fatto della Lega quello che è stato. Secondo punto di divergenza: Salvini vuole parlare a tutta l’Italia, mentre Zaia, evidentemente, si rivolge primariamente ai suoi elettori veneti. Non è un caso, per esempio, che lo slogan “Salvini premier” campeggi su un fondo blu e con scritte bianche che somigliano, come osservato da altri, più a Trump che ai fasti cromatici del verde speranza padano.

C’è poi un terzo e fondamentale aspetto, cioè che probabilmente il percorso della campagna elettorale di un Salvini candidato premier rischia di trasformarsi in un pericoloso equilibrismo: da una parte la serpe in seno che rinfocola le aspirazioni autonomiste del Veneto in chiave anti-romana, dall’altra l’elettorato salviniano puro, incazzato con tutti e forse anche con le intenzioni autonomiste. Riuscirà a far convivere i paladini del nord contro il “sud sprecone” e l’orgoglio degli elettori del sud che tenta da sempre di corteggiare? Non gli resta che augurarsi che l’ondata migratoria non si arresti e anzi continui tra proclami di catastrofi in ogni dove, in modo da fornire un proverbiale quanto necessario obiettivo comune: “i negri”.

Detto per inciso, a proposito dei vituperati sprechi della politica, un referendum tutto sommato inutile è costato circa 50 milioni di euro in Lombardia e 14 in Veneto.

Penna Bianca -ilmegafono.org