Le marcate anomalie climatiche di questi ultimi mesi, con temperature roventi e forte siccità, sono state erroneamente collegate da molti media al cambiamento climatico. In realtà vanno lette in modo diverso e più specifico: siamo in un anno della Niña. Significa che, verso la fine dello scorso anno, si è verificato un raffreddamento anomalo della fascia centrale dell’oceano Pacifico. Ciò determina una variazione nella circolazione dei venti (e dunque anche delle precipitazioni) che si traduce in siccità e alte temperature nell’emisfero settentrionale, mentre su buona parte dell’emisfero meridionale si scatenano piogge torrenziali e monsoni rinforzati. La Niña è un fenomeno speculare rispetto al più noto Niño, che prende nome dal fatto che i pescatori peruviani registravano anomalie nella temperatura dell’oceano nel periodo vicino al Natale: el Niño, “il Bambino”, si riferisce dunque al Bambin Gesù.
Nessuno è mai riuscito a collegare in modo certo il riscaldamento e il raffreddamento anomali del Pacifico, situazioni che si verificano ogni 2-5 anni, al cambiamento climatico. Anche perché le prime testimonianze risalgono al 1891, quando un pescatore peruviano scriveva una lettera nella quale raccontava che si stava vivendo un anno di abbondanza perché i deserti erano diventati verdi e la pesca era stata abbondante e ricca. Le prime conseguenze delle alterazioni della temperatura delle acque sono gli insoliti comportamenti stagionali dei pesci e le anomale precipitazioni sulla costa peruviana. Ma l’intensificarsi di queste oscillazioni porta disastri su vasta scala: è accaduto ad esempio nel 1982, quando il Niño produsse devastazione e morte in America Latina per via delle alluvioni e degli uragani, in Indonesia e Oceania a causa della siccità.
Soltanto dagli anni ‘70 si cominciò a studiare davvero il fenomeno, comprendendone via via le conseguenze globali. I climatologi collegarono le anomale temperature registrate nelle acque al largo del Perù a quanto accadeva negli stessi anni in Nord America. Si comprese che la Niña, in particolare, rende miti e poco nevosi gli inverni canadesi, aumenta la potenza degli uragani nell’Atlantico occidentale e nel mar dei Caraibi, genera siccità e alte temperature negli Stati Uniti meridionali e alluvioni in quelli nord-occidentali, così come sulla costa pacifica del Sud America e sulle Ande.
La fascia oceanica in cui si sviluppa il fenomeno viene chiamata dagli scienziati “piscina d’acqua calda”: va dal Perù fino alle coste orientali dell’Australia. In questa “vasca” l’acqua si scalda o si raffredda all’improvviso, e l’anomalia della temperatura, più bassa o più alta che sia, si manifesta verso dicembre. Accade ogni 3-4 anni: e allora si può stare certi che si verificherà un Niño o una Niña. Di questi fenomeni ormai conosciamo tutto, tranne l’origine, “mistero” che si aggiunge alle molte lacune della nostra conoscenza degli abissi oceanici e della biodiversità terrestre, classificata per meno di un decimo di quanto si stima sia la sua consistenza. Ad esempio sui batteri, fondamentali per la vita, la nostra conoscenza si ferma all’1% dell’esistente.
Conosciamo bene, invece, le origini del cambiamento climatico: non ci sono dubbi sulle responsabilità dell’uomo. Sappiamo che esso continua a eliminare biodiversità, modificare gli habitat animali e umani, mettere a rischio la sicurezza alimentare sulla Terra. Questo è lo stato dell’arte. Non riusciamo ancora a capire fenomeni così importanti come el Niño; non vogliamo affrontare fenomeni chiarissimi, perfino banali nella loro dinamica, come il cambiamento climatico. Entrambi i fenomeni hanno ricadute drammatiche: perciò quello dell’ambiente oggi non dovrebbe più essere considerato un tema divisivo, bensì come la più grande, e forse vitale, impresa che l’umanità dovrebbe affrontare con determinazione. Se solo si riuscisse a capire che è questa la vera emergenza globale, quella che rischia di porre il punto finale alla lunga storia del nostro genere.
Alfredo Luis Somoza – ilmegafono.org
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